Carlo Ancelotti, 63 anni, qui con la corona con cui ha posato per la trasmissione di Italia 1 dedicata ai Re del calcio

Il Foglio sportivo

L'anno perfetto di Ancelotti, quello che era bollito 

Alberto Brandi

Intervista all'allenatore del Real Madrid: “Ho cantato, ballato, fumato il sigaro. Ma non stiamo mica sempre a ridere e scherzare”

Carlo Ancelotti è l’allenatore dell’anno. Non dovrebbe fare notizia. Eppure, per qualcuno l’ha fatta, eccome. Ancelotti e la vittoria si conoscono bene. Si annusano da quando, storia di una cinquantina di anni fa, Carletto comincia a giocare nelle giovanili del Reggiolo. Ancelotti e la vittoria si incontrano per la prima volta il 17 maggio 1980, giorno del primo urrà con la Roma. Una Coppa Italia conquistata ai rigori col Torino, a 20 anni (maglia numero 10 sulle spalle) segna con freddezza il primo. Ancelotti e la vittoria si dividono nel 2017. Gli avambracci sono esausti dopo avere alzato ogni tipo di trofeo, gli ultimi sono una Supercoppa tedesca e un Meisterschale col Bayern. L’addio è doloroso. Pare irreversibile. I tre anni tra Napoli ed Everton sono accompagnati da giudizi superficiali, vanno dal generoso “è sul viale del tramonto” all’impietoso “è bollito” della critica più aspra. Poi succede che nell’estate 2021 arrivi la chiamata del Real Madrid. Una ri-chiamata, in realtà, per l’uomo che aveva sfatato nel 2014 la maledizione della decima Champions. Quell’obiettivo che non veniva raggiunto da 12 anni malgrado gli sforzi di Florentino Perez e, in parte, di Ramon Calderon. Ancelotti e il Real si ritrovano incerottati. Il tecnico non vince da cinque anni, il Real è reduce da una stagione in cui è rimasto clamorosamente a secco. Devono essersi detti “riproviamoci insieme, vada come vada”. Risultato della scommessa? L’anno solare 2022 si chiude con una collezione dorata di Champions League, Liga, Supercoppa Europea, Supercoppa Spagnola.

 

Incontriamo Ancelotti a Valdebebas, la Ciudad del Real estesa per più di un milione di metri quadrati, il più grande centro sportivo del mondo. 

 

Alla faccia dell’allenatore finito, Carlo. 

“È un’annata speciale che arriva dopo un periodo abbastanza travagliato. Si pensava che la mia carriera volgesse al termine. Una stagione unica per come abbiamo vinto, soprattutto in Champions. Rimonte spettacolari, ribaltamento di tutti i pronostici con mille difficoltà da superare. Considero questo 2022 tra gli anni più speciali che mi siano capitati nella vita. Sì, proprio dodici mesi da ricordare”. 

 

Dicono: “No es Fútbol, es Real Madrid” quindi arrivare primi è quasi una cosa normale. Il concetto di impresa è mai esistito da queste parti?  

“In effetti dopo la vittoria non ci si ferma mai. Si pensa subito al futuro: alzi la Champions numero 14 e ti dicono subito di pensare alla quindicesima. È nella storia e nella tradizione di questo club. Il Real Madrid è una società di calcio, ripeto, di calcio. Economia e finanza passano quasi in secondo piano. L’aspetto sportivo è quello che conta maggiormente. Eppure, i bilanci sono rimasti in ordine nonostante l’impegnativa ristrutturazione del Santiago Bernabeu e le difficoltà degli anni di pandemia durante i quali tutto il calcio ha sofferto”. 

 

Cosa vi siete detti col presidente Florentino Perez nel momento di maggiore difficoltà della stagione?

"Ci sono stati due momenti drammatici. Il primo, in quattro giorni tra settembre e ottobre, con le sconfitte in Europa contro lo Sheriff Tiraspol e in Liga contro l’Espanyol. Mi ricordo che c’erano perplessità sul valore della squadra. Poi a marzo con l’umiliazione dal Barcellona davanti al nostro pubblico: uno 0-4 difficile da dimenticare. Allora ho detto a Florentino ‘Tranquillo Presidente, vinciamo sia la Champions che il campionato’. Tante volte lo si fa per guadagnare tempo, per tenere l’ambiente tranquillo. Ma lui era convinto che si potesse fare. Forse è stato l’unico per cui non è stata una grande sorpresa, alla fine, vincere sia il campionato, sia la coppa".

 

Dall’esonero al Napoli al trionfo in Champions sono passati 900 giorni... 

“È la storia del calcio, è un bel film perché a volte succede che le cose non vadano per il verso giusto. L’esperienza di Napoli è stata comunque positiva. Volevo tornare in Italia, l’ho fatto in una piazza calda, passionale. Quella all’Everton uguale: è stata una bella avventura perché abbiamo fatto cose importanti come vincere il derby di Liverpool ad Anfield dopo 22 anni. Quando mi stavo guardando in giro, arriva a sorpresa la chiamata del Madrid. Un ritorno insperato, inaspettato”. 

 

A Londra, ai tempi del Chelsea, ti chiamavano “The diva whisperer”, l ‘uomo capace di sussurrare ai campioni, con quella capacità di trattare le stelle che è il tuo marchio di fabbrica. Quest’anno hai parlato a stelle (aiutando Benzema a vincere il Pallone d’Oro) e stelline (Vinicius è diventato un giocatore che fa la differenza). 

“Benzema era un punto fermo di questa squadra. Ha fatto quello che mi aspettavo, anche se per molti c’era l’incognita dell’età avanzata. Il discorso vale anche per Modric e Kroos. Per quelli come Vinicius, invece, c’era la preoccupazione che tardassero a esplodere. È semplicemente successo che i veterani hanno dato certezze ai giovani e questi ultimi hanno portato energie ed entusiasmo a tutto il resto della squadra”. 

 

A Valdebebas c’è un’enclave italiana, è il gruppo di lavoro di Ancelotti. La chiamano la “Pequena Italia” e tra gli assistenti spicca la figura di suo figlio Davide. Insieme sono i protagonisti di una delle immagini più intense dell’anno sportivo. Una sequenza iconica. Alla fine della semifinale col Manchester City che apriva le porte della finale, padre e figlio si sono abbracciati fino alle lacrime. Era, qualche mese fa, il 4 maggio. Un anno prima, lo stesso giorno, li aveva lasciati Luisa, compagna di una vita per Carlo e indimenticabile mamma per Davide. “Rivedere quell’immagine mi commuove, per noi era un giorno particolare, quell’abbraccio rappresentava qualcosa di speciale, c’erano gioia ed emozione”. 


C’era anche la rivincita di Davide dopo le tante critiche ricevute? Per molti era semplicemente un raccomandato.

“Davide non ha bisogno di rivincite. È stato apprezzato in tutti i posti dove è stato: al Bayern Monaco, alla prima avventura al Real, a Napoli. La storia del raccomandato è una cazzata. Davide è un allenatore capace, serio, sta facendo una grande esperienza, è molto preparato e competente. È della parte giovane del mio gruppo di assistenti, composto solo da italiani. I due che hanno più esperienza siamo io e il preparatore atletico Antonio Pintus, arrivato al Real dopo lo scudetto nerazzurro con Conte”. 

 

Dopo la vittoria in finale col Liverpool non ti sei risparmiato con le feste. 

“Sì, ho cantato, ballato, posato con un sigaro in bocca insieme ai miei giocatori. La cosa curiosa è che dopo quell’istantanea mi sono arrivati una marea di sigari, ma io non li fumo! In ogni caso, tutto quello che faccio è legato alla relazione che ho con i giocatori. Non voglio dire che stiamo sempre a ridere e a scherzare, anzi. Il rapporto che intendo è tra persone che stanno insieme tutto l’anno: può succedere che ci siano spazi per svago e divertimento, ma ci sono anche momenti di serietà e di incazzature”. 

 

Perché la Champions è casa tua? Ne hai vinte sei, quattro da giocatore e due da allenatore. 

“Perché la mia storia calcistica si è costruita nelle due squadre che hanno più tradizione in Champions League, il Real Madrid e il Milan. Sono le due società che hanno caratterizzato, il Milan da giocatore e allenatore e il Real Madrid solo da allenatore, la mia carriera”. 

 

Il Real Madrid sarà la tua ultima squadra o non escludi altre avventure? Cioè non senti ancora vicino il tempo da regalare a figli e nipoti piuttosto, chessò, di andare ad allenare un giorno il Brasile? 

“No, coi figli sono a posto, ho già dato. Sui nipoti ho già deciso che il tempo per loro sarà di due ore a settimana, non di più. Ho Mariann, una moglie bellissima, alla quale mi voglio dedicare. Smettere non lo so, certo pensare dopo il Real Madrid di trovare una squadra migliore è dura. Però, non si sa mai…”.

 

Hai scritto in passato un libro anni fa che si intitola “Il Leader Calmo”. Il Leader calmo per eccellenza della tua storia è stato papà Giuseppe, che lavorava dalla mattina alla sera nei campi con gli animali e tu gli davi una mano. Ti ricordi come ha reagito quando gli hai detto che avresti lasciato quella vita di vicinanza, di aiuto per darti completamente al calcio? 

“Mio papà era molto contento quando sono andato a Parma per la prima volta. Chi non era contenta era mia mamma. Aveva sempre paura che mi facessi male. Comunque sia, credo che il fatto di avere avuto un’infanzia molto tranquilla abbia formato il mio modo di essere. Il carattere che ho e che utilizzo nella relazione con gli altri è nato da quegli anni di gioventù che ricordo sempre con molto piacere, perché ho avuto la fortuna di crescere serenamente”.

 

Hai mai pensato alla storia che tu, Arrigo Sacchi e Stefano Pioli eravate tutti tifosi, anche molto appassionati, dell’Inter e poi la squadra nerazzurra è diventata la vostra acerrima nemica? 

“Sì, è vero! Per me rimane sempre, per quello che è stato, la simpatia per l’Inter perché è stata la squadra della mia infanzia. Dai 6 ai 15 anni ero tifoso dell’Inter e dopo, piano piano, le mie idee sono cambiate. Adesso posso dire di essere milanista al cento per cento”.

 

Ora arriva il 2023 e per Ancelotti, in un club mai stanco di vincere ricominciano le sfide: le final four di Supercoppa Spagnola in Arabia Saudita tra meno di due settimane, un campionato lottando per il titolo col Barcellona e soprattutto ancora il Liverpool sulla strada verso i quarti di Champions League. Contro i Reds hai saltato per infortunio la finale all’Olimpico di Roma nel 1984 da giocatore, subìto l’onta di Istanbul nel 2015, ma i conti sono stati regolati nel 2017 ad Atene e lo scorso 28 maggio a Parigi. 

“E dal Liverpool fui cercato prima che scegliessero Klopp! Siamo alle solite, qui conta solo un risultato. Anche nel 2023. Per scherzare un dirigente mi ha detto che un pareggio è l’anticamera della crisi. E allora sappiamo quello che dobbiamo fare: speriamo di riuscirci ancora”.

 

Gli consegniamo per il programma di Italia 1 “I re del calcio” ( dedicato a Ancelotti, Pioli e Inzaghi, oggi alle 13.50) una corona. Ci dice che non ne ha mai indossata una e si diverte mettendosela in testa.  Lasciamo Valdebebas con la sentenza di Carlos Carbajosa, l’uomo della comunicazione dei blancos. “Carlo es el entrenador perfecto para el Real”. Non servono traduzioni, ma tradizioni. Tradizioni perse per qualche stagione, rinnovate nel 2022. Carlo Ancelotti è ancora una volta l’allenatore dell’anno. Per la storia del calcio non è una notizia. 

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