Dentro allo stadio antico più moderno del mondo. Così il nuovo Bernabéu renderà imprendibile il Real Madrid

Un quindicennio di progetti per ideare l'impianto più bello del mondo, aperto tutto l'anno a ogni  sport. Previsti incassi record. E il Barça trema già. Reportage

Matteo Matzuzzi

Domenica 10 settembre, niente partite ma stadio affollato di tifosi con maglietta di Vinicius o Bellingham, di turisti pronti a scattarsi selfie, di curiosi, di ragazzi e ragazze che accorrevano allo store ufficiale dove si può comprare di tutto, dalla felpa alla t-shirt, dal portachiavi alla borraccia con marchio della squadra

Madrid. Lo Stadio Santiago Bernabéu è a otto minuti dal centro cittadino, a cinque fermate di metropolitana da Plaza de España. Lo stadio può contare su una stazione della metropolitana – che sarà presto rifatta e ampliata, passando dagli attuali 4.843 metri quadrati ai 12.481 che si conteranno al momento dell’apertura, fra tre anni –, non di quelle che richiamano il monumento ma poi distano chissà quante centinaia di metri, tipo “Barberini-Fontana di Trevi” a Roma, con i turisti americani e giapponesi che scendono lì pensando di essere davanti alla Fontana di Trevi e scoprono che in realtà dovranno scarpinare ancora un bel po’. No, scendi alla stazione Santiago Bernabéu, sali la scaletta e sei all’ingresso. E non ai tornelli, come da triste consuetudine italiana: sei proprio pronto per entrare allo stadio. Che è circondato da palazzi residenziali, senza aree verdi così care ai circoli ambientalisti nostrani che non fanno costruire un impianto sportivo se prima non ottengono la garanzia che lì saranno piantati cento o mille alberi, e soprattutto senza parcheggi  scoperti. Non servono: a Madrid la metro (dodici stazioni, più tre di metro leggera) funziona benissimo. E comunque, per chi volesse usare l’auto, nessun problema: arriverà il parking interrato. Ma basta il treno sotterraneo, appunto: niente corpi sudaticci appiccicati l’uno all’altro, niente borseggiatori che s’infilano fra un turista sbadato e un anziano, niente segnalazioni sbagliate o attese di sette otto nove undici minuti prima che si veda un treno. Il Bernabéu si sta preparando alla grande inaugurazione prevista a dicembre, ma già dall’inizio della nuova stagione della Liga ha ospitato le prime partite stagionali del Real. E’ un gioiellino: tetto retrattile – basteranno 15 minuti perché si copra – e retrattile pure il terreno. Questa è la grande novità: il prato è stato diviso in parti uguali che, grazie a un sistema di ultima generazione, viene conservato a quaranta metri di profondità. Alla temperatura giusta, senza che il micidiale sole della Castiglia lo bruci e senza che la troppa umidità lo trasformi in fanghiglia. Con un sistema di luci ultraviolette che lo illuminano come si deve. I video diffusi in questi giorni fanno capire cosa accade quando non si gioca: il campo va sottoterra e al suo posto emerge una piattaforma utile a permettere lo svolgimento di tutte le attività che il mondo Real vuole organizzare lì: partite di tennis e di basket, concerti ed eventi vari, perfino match di football americano. Ragazzi e ragazze potranno saltare quanto vogliono sul terreno, tanto il prato starà riposando decine di metri più in basso. E’ questa la chicca, la marcia in più che rende il nuovo Bernabéu lo stadio antico più moderno al mondo. Non è un paradosso né un controsenso: fu inaugurato alla fine degli anni Quaranta, fu il teatro del grande Real di Alfredo Di Stéfano, è stato più volte restaurato – l’Italia su quel prato vinse il Mondiale del 1982 – e oggi si presenta come fosse nuovo. Un impianto da vivere ogni giorno, anche quando non sono in programma partite. Domenica scorsa il Foglio era lì, in quella giornata di pausa per i campionati, con le Nazionali impegnate nelle gare di qualificazione agli Europei del 2024 in Germania.

 

Eppure, alle 17, con 38 gradi, il Bernabéu era affollato. Di tifosi con maglietta di Vinicius o Bellingham, di turisti pronti a scattarsi selfie fuori e dentro l’impianto, di curiosi, di ragazzi e ragazze che accorrevano allo store ufficiale dove si può comprare di tutto, dalla felpa alla t-shirt, dal portachiavi alla borraccia con marchio della squadra. E si spende: code anche di dieci minuti alle tre casse aperte, una riservata ai “socios”, gente che paga cento, duecento euro per le magliette ufficiali e la borsa nera con il logo del Real stampato in bianco. A rendere l’idea di quanto il blasone conti, facevano lì la spesa ragazzi con vecchie maglie dell’Inter (Ronaldo era il nome impresso sulla schiena) e uno con la maglia del Milan primi anni Novanta. Derby anticipato nel cuore del Bernabéu. I bambini sanno tutto e indicano ai genitori che giustamente non c’è più Benzema nelle foto ufficiali, la sorellina di sei, forse sette anni, recita a memoria la formazione-tipo a una madre estasiata, orgogliosa di quella piccola merengue dalla fede già saldissima. “Leyenda, leyenda”, dice guardando i poster e le coppe che circondano l’impianto. Appena usciti dalla metro c’è il cartello che indica da dove parte il tour, si passa mostrando un codice QR, quindi si entra nella pancia dello stadio. Da una parte e dall’altra le foto del passato in bianco e nero, quindi le scale mobili di ultima generazione con luce incorporata. Fino al museo, sancta sanctorum del club más grande de la historia che comunque sarà ampliato e rinnovato. I trofei allineati nelle teche, la coda per farsi un selfie davanti alle coppe dei campioni (sono parecchie), quindi la fila per immortalarsi con l’ultima, quella vinta a Parigi contro il Liverpool nel 2022. E poi la porta che dà sulle gradinate: scese le scalette, lo spettacolo di un impianto che si rinnova, col suo tetto nuovo di zecca, il campo con le ruspe, le impalcature qua e là a ricordare che i lavori non sono terminati.

 

Visto? diranno subito quanti chiedono che la stessa sorte tocchi a un altro monumento, il Giuseppe Meazza di Milano: tutto si può ristrutturare, basta volerlo. Ma sono due faccende che più diverse non potrebbero essere: il Bernabéu è di proprietà del Real, il Meazza è del comune. Mentre il Bernabéu veniva smontato e ricomposto si era in piena pandemia, e il Real giocava a Valdebebas. Milan e Inter dove giocherebbero? A Milano tutti gli studi sono concordi: le due squadre devono andarsene mentre si rifà il Meazza. L’ha spiegato già anni fa Emilio Faroldi, pro rettore del Politecnico e massimo esperto di strutture sportive in Italia: “Le vecchie strutture sportive come San Siro non sono resilienti, non hanno la capacità di adeguarsi alle nuove funzioni, ai nuovi modelli di intrattenimento. San Siro nacque come spazio destinato al calcio, ha già visto tre stratificazioni, si vede morfologicamente che è uno stadio sofferto. E’ un impianto rigido, la compartimentazione degli spazi sotto le tribune non garantisce la flessibilità di nuove aree e funzioni che hanno bisogno di progettazioni libere e meno vincolanti. Per come è concepito nelle altezze, nella sovrapposizione delle gradinate, ormai non va più bene. Servirebbero sforzi enormi per ristrutturarlo in maniera drastica e non si otterrebbe comunque lo stesso obiettivo che si raggiungerebbe con la costruzione di un nuovo impianto. Si pensi a materiali, tecnologie, messa a norma. Serve uno stadio digitale, San Siro invece fa della materia il suo punto di forza. L’applicazione di un cablaggio totale, l’implementazione di un modello smart sono quasi impossibili. Ristrutturarlo sarebbe un grande costo, farlo nuovo sarebbe un grande investimento”.

 

Il fatto è che in Spagna non ci sono comitati che tengano e se un club vuole costruirsi un impianto, lo fa. Anni fa, il direttivo dell’Atletico Madrid decise di radere al suolo il mitologico Vicente Calderón, simbolo del sud cittadino, quello popolare e operaio lontano dalle belle ville del nord borghese: qualcuno ha alzato il sopracciglio, qualche lacrima è caduta. Ma alla fine tutti sono concordi: al posto di un catino di cemento armato e ferro ormai invecchiato, ecco una struttura ipermoderna capace di vivere ogni giorno, per tutto l’anno. E che dire del Camp Nou, l’immenso stadio di Barcellona, la Sagrada Familia del calcio? Fatto a pezzi e venduto, seggiolini e zolle di terra messe sul mercato come ricordo. Squadra trasferita al Montjuic, lo stadio olimpico non proprio comodo e attesa per il nuovo impianto. Un colpo al cuore, certo, ma il mondo va avanti. Dopotutto, è stato abbattuto Wembley e siamo ancora qui. Florentino Pérez, l’incontrastato presidente del Real, lo disse quando presentò il progetto, nel lontano 2009: “Diventerà una grande icona d’avanguardia universale”. Obiettivo: fare il più bel stadio del mondo. Frase che tutti dicono, ma che poi la burocrazia spesso rende utopia. Anche a Madrid qualche problema c’è stato in passato, soprattutto negli anni in cui il comune era retto dalla sindaca Manuela Carmena, sinistra-Podemos, ex magistrata dal profilo integerrimo. Arrivò perfino a dire un “no” ai desiderata di Florentino, perché non ci vedeva troppo chiaro in quelle cubature extra richieste (alberghi? Centri commerciali? Meglio di no). Però alla fine, rivedendo e sistemando, la barca è andata in porto. E Pérez si faceva fotografare sorridente accanto a Carmena con i modellini del nuovo stadio. La pandemia, se da un lato ha accelerato i lavori (con la sospensione dei campionati e il trasferimento del club al più piccolo Alfredo Di Stefano, tanto i tifosi non potevano entrare), dall’altro ha inferto un duro colpo alle casse del club. Blocco agli acquisti da cento e più milioni di euro – che erano la normalità, in casa madrilena – e dieta rigida sugli stipendi. Eppure, ha scritto sul Debate Tomás González-Martín, in quel periodo il Real ha vinto la Champions league, una Coppa del mondo per club, una Supercoppa europea, una Copa del Rey e due Supercoppe spagnole: “Dopo la trance pandemica, il Real Madrid ha riacquistato la normalità e il nuovo impianto sarà la fonte di reddito perenne e straordinaria che permetterà alla squadra più famosa del mondo di competere con i club-stato dei paesi arabi. La nuova sede della squadra diventerà lo stadio più moderno del pianeta e inizierà a produrre denaro da dicembre”.

 

Ma quanto è costato? L’importo dell’investimento contabilizzato nell’esercizio 2022-23 è stato pari a 355 milioni di euro. In totale, l’investimento accumulato fino al 30 giugno 2023 ammonta a 893 milioni di euro. Tanti soldi, ma rischio calcolato: da gennaio, infatti, si prevede che le entrate aumenteranno in maniera esponenziale grazie alla “capacità ordinaria-vip” (modo elegante per dire che i biglietti costeranno di più e che si confida molto sulla costanza delle celebrità paganti ai match delle merengues) e allo sfruttamento commerciale della struttura (tour, eventi, bar, ristoranti, store). Aperto sempre, tranne il 24 e 31 dicembre. Le prospettive sono più che rosee, tant’è che nella “nemica” Barcellona si sottolinea come “la differenza che il Real Madrid farà rispetto al resto delle squadre spagnole sarà notevole”. Un nome su tutti, che di denari se ne intende: Jaume Roures, fondatore del quotidiano Público e ceo di Mediapro, è stato il primo a indicare il divario che si amplia sempre di più. González-Martín scrive ancora: “La gestione all’avanguardia di Florentino Pérez aumenterà questa distanza ogni giorno di più”. Anche perché, se a Madrid con circa un miliardo riusciranno a rifare il Bernabéu, a Barcellona le cose sono messe assai peggio: i debiti del club catalano ammontano a circa un miliardo e mezzo e il rifacimento del Camp Nou porta la cifra a 4,3 miliardi. E sì che in Catalogna di rifare il glorioso impianto se ne parlava da decenni: vent’anni fa un primo rapporto calcolava che sarebbero bastati 250 milioni, ma a ogni insediamento di un nuovo presidente si ricominciava da capo: mania di mettere il proprio timbro sul progetto, aggiunte e correzioni. Con il risultato di aver perso anni e di aver visto lievitare i costi. Il timore, ormai dichiarato, è che la Liga si trasformi sempre più in una copia – benché più prestigiosa e con più storia da raccontare – della Ligue 1 francese: un unico club “costretto” a vincere e gli altri ammessi a guardare la festa. Per il Barça sarebbe l’apocalisse, perché alla sconfitta sportiva si unirebbe l’umiliazione politica e culturale: la Spagna vince ancora sulla Catalogna, costretta a leccarsi le ferite e a rincorrere quella sorellastra mai troppo benvoluta da cui si vorrebbe scappare il prima possibile. Anche per questo ora si corre con il progetto del Camp Nou: si tratta di colmare il gap e in fretta, prima che diventi irrecuperabile e che i debiti diventino una montagna inscalabile. Il calcio europeo, infatti, è sempre più – e da anni – diviso non tanto sui valori complessivi della squadra che scende in campo, quanto sul modello di business che ogni club riesce a produrre. Le società ricche sono quelle che hanno uno stadio moderno e “vissuto”, primo tassello di un meccanismo che mette in circolo soldi. L’Inghilterra viaggia su un altro pianeta, la Superlega mestamente naufragata esiste già ed è la Premier league, dove anche il più piccolo club neopromosso incassa più di una delle big di Serie A. La Liga spagnola è molto indietro, ma ha due punte di diamante (una messa meglio dell’altra, come s’è visto).

 

La Serie A è molto nelle retrovie, con i suoi impianti fatiscenti che non si possono rifare perché spuntano qua e là vincoli delle Belle Arti, pareri di comitati di quartiere, resistenze politiche. Firenze e Venezia avevano presentato il rendering del nuovo stadio, tutto sembrava fatto ma poi la Commissione europea ha detto no all’uso dei fondi stanziati nell’ambito del Pnrr. In un colpo solo, sono venuti meno 148,5 milioni di euro europei destinati all’Artemio Franchi di Firenze e al Bosco dello sport di Venezia. Soldi che ora dovrebbe versare lo stato e in tempo di manovre rigorose lacrime e sangue pare quasi impossibile. “Il fronte stadi resta quello più intricato per il rilancio del calcio italiano e per la rigenerazione dei quartieri coinvolti da interventi urbanistici che sulla carta valgono oltre 2,5 miliardi. Investimenti che restano al palo per l’indecisione politica o per i blocchi della burocrazia”, ha scritto il Sole 24 Ore. Qualche eccezione c’è, naturalmente: Bergamo è l’esempio più virtuoso. A Bologna, dopo sette anni di attesa, i lavori sono pronti a partire ed entro il 2027 la squadra dovrebbe poter giocare nel Dall’Ara restaurato (per quanto possibile, visto che la Torre di Maratona dovrà essere preservata). C’è poi Cagliari, che da tempo s’arrabatta con progetti e idee e che in un biennio dovrebbe avere l’arena “Gigi Riva”: costo stimato, 200 milioni. E poi la Roma con l’impianto di Pietralata, fino naturalmente al “caso dei casi”, San Siro: dopo anni di discussioni, politici locali a protestare, vip pronti a immolarsi per la salvaguardia dello storico stadio in quanto “monumento” (anche se pochi sembrano ricordare che il “monumento” post ristrutturazione di fine anni Ottanta ricorda ben poco quello di prima), con Inter e Milan che premevano per costruirsi un impianto a due passi, negli sterminati parcheggi di un’area che dal lunedì al venerdì è morta, è arrivato lo stop. All’italiana, quindi surreale: è in arrivo un vincolo sul secondo anello, quindi il Meazza non si potrà demolire. E siccome la possibilità di restaurarlo come s’è visto non può neppure essere presa in considerazione, il risultato sarà che i due top club lasceranno Milano e al comune resterà un mostro di cemento armato utilizzabile solo per qualche concerto. Ammesso che i decibel non disturbino troppo chi del quartiere non voleva saperne del nuovo stadio (e quindi della conseguente riqualificazione dell’area). I residenti del quartiere che ospita il Bernabéu sono abituati ai decibel che si sentono dal catino, e pure gli ambientalisti si erano opposti a restyling non tanto per tetti retrattili e nuove coperture, quanto per l’idea di Pérez di espandersi su paseo de la Castellana, costruendovi un hotel e un centro commerciale. Certo, c’è anche chi non è convinto di come è stata fatta la ristrutturazione: “Sembra una fotocopiatrice”, sussurra qualcuno sui forum dei tifosi. Altri lodano i nemici dell’Atletico che si sono fatti lo stadio fuori città senza dover essere costretti a stare in un quadratino di quartiere fra strade incroci e marciapiedi. Minoranze esigue. Il popolo madridista è fiero, guarda il suo gioiellino e recita il motto che compare su ogni curva e tribuna del Bernabéu: ¡Hasta el final! ¡Vamos Real!

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.