A canestro

Il trionfo mondiale della Germania è una lezione ai solisti del basket

Francesco Gottardi

Nell’ultimo atto i tedeschi piegano la Serbia, che pure ci era arrivata senza le sue stelle. Agli Stati Uniti nemmeno il bronzo: nella pallacanestro di oggi non serve lo strapotere tecnico, basta reggere il confronto. E alla fine vince chi è più squadra

La Germania si prende anche il basket. Per la prima volta nella sua storia vince il Mondiale, lo fa da imbattuta – unica formazione del torneo – e dunque con pieno merito. Non era la squadra favorita, né la più forte. Ma si è dimostrata la più completa: tranne il blackout contro la Lettonia, Dennis Schroder ha diretto l’orchestra da vero leader – 28 punti anche in finale –, consegnando ai fratelli Wagner – altro fattore famiglia, dopo gli Hernangomez quattro anni fa – il ruolo di prime voci e ai vari Obst, Bonga e Theis quello dei comprimari determinanti. È vero che i tedeschi non avevano mai giocato una finale, ma è altrettanto vero che la Serbia – tra Europei, Mondiali e Olimpiadi – ne aveva perse cinque su cinque. Oggi è arrivata la sesta (83-77 lo score), al termine di una partita generalmente bruttina, dove tremavano le mani un po’ a tutti, tranne all’Mvp della competizione e un insospettabile Aleksa Avramovic dall’altra parte – enorme, ma solitario. Il sigillo sulla vittoria è però del ct canadese Gordon Herbert: ha raccolto la Germania dall’anonimato cestistico, in due anni l’ha portata al bronzo continentale e in cima al mondo. Wundercoach.

 

È stato il Mondiale dell’equilibrio e del tramonto dei singoli. Un po’ perché non c’erano – Jokic, Antetokounmpo –, un po’ perché quando c’erano non sono bastati: Doncic fuori ai quarti, i solisti americani – Canada più Stati Uniti – in semifinale, quelli francesi presi a pallate sin dall’inizio. È stato infatti il Mondiale del collettivo, corpo unico e armonia tattica: è così che la Germania e la Serbia orfana delle sue stelle sono arrivate a giocarsi l’oro, è così che le due baltiche hanno stupito chiunque sul parquet. E mettiamoci pure l’Italia, che il vero climax del suo orgoglioso cammino – lo sgambetto a Bogdanovic e soci, la sola a riuscirci prima di oggi – l’ha raggiunto giocando da squadra che di più non si può.

 

È stato anche il Mondiale delle facce basite: quelle di Steve Kerr e Erik Spoelstra, luminari del coaching Nba, che poco o nulla ci hanno capito dei 40 minuti fatali al (non così tanto) Team Usa e invece epocali per il basket tedesco. È stato il Mondiale della fine dei miti: quello a stelle e strisce, appunto, che ha chiuso senza medaglie per due edizioni di fila per la prima volta in 53 anni. E quello di Gigi Datome, 203 partite e 16 anni in Azzurro, tributati da compagni, avversari – Doncic per primo –, direttori di gara e pallacanestro tutta. E allo stesso tempo, è stato il Mondiale delle nuove rotte. Il talentuosissimo Canada che si prende il bronzo in volata, eguagliando il suo miglior risultato di sempre. La Lettonia di Luca Banchi, esordiente assoluta eppure ammazzagrandi seriale con dei tifosi da cinema. Fino al Sudan del Sud, che non va a medaglia ma all’Olimpiade sì “e questo – parola di coach Royal Ivey – è il traguardo più importante: il mondo ora conosce i nostri giocatori e con loro il dramma del nostro popolo”.

 

Promossi il pubblico e l’organizzazione dei paesi ospitanti, soprattutto sull’euforico lato filippino. Menzione d’onore per lo sfortunatissimo Borisa Simanic, “che per la Nazionale serba ha dato un rene” – letteralmente, sotto il tabellone – e i suoi compagni per poco non arrivavano a dedicargli il trionfo. Bocciata la classe arbitrale, equamente inadeguata per tutta la manifestazione. E archiviata senza appello la spocchia delle primedonne, che per l’Nba fine superiore hanno rifiutato convocazioni a destra e a manca. Era sempre successo nella bistrattata storia dei Mondiali. Ma l’adrenalina altissima di queste final eight – Germania-Serbia non ci basta – potrebbe aver cambiato molte cose. Anche le cattive abitudini.