Adrian Newey (foto Ansa)

Il Foglio sportivo

L'uomo che sta dietro alle magie di Verstappen. Alla scoperta di Newey

Umberto Zapelloni

L’ingegnere RedBull che parla con il vento e domina la Formula 1. I due no detti alla Ferrari e il senso di colpa per la Williams che costò la vita ad Ayrton Senna

Alla Ferrari per tornare a vincere non serve Verstappen. Max sta disputando una stagione perfetta che a Monza potrebbe portarlo a conquistare la sua decima vittoria consecutiva, un’impresa mai vista prima in più di 70 anni di storia della Formula 1, ma neppure lui vincerebbe con la macchina di quest’anno. È una questione di uomini, ma non di piloti. Dietro alla Red Bull che sta piallando la concorrenza c’è SuperMax, d’accordo, basta vedere la differenza tra le sue prestazioni e quelle del suo compagno di squadra, ma c’è soprattutto un uomo che la Ferrari ha corteggiato a lungo senza mai riuscire a convincerlo a lasciare l’Inghilterra: Adrian Newey. 

Newey è il genio della Formula 1 moderna, l’uomo che a ogni cambio di regolamento si inventa qualcosa che costringe il resto del mondo a inseguire. Il bambino che giocava con le piste Scalextric è diventato un ingegnere che sa ascoltare il vento e portarlo sempre dalla sua parte. Ha dominato con tre squadre diverse, Williams, McLaren e Red Bull e nessuno ha vinto quanto lui: 11 mondiali piloti e 10 mondiali costruttori. Ha vinto con Mansell, Prost, Damon Hill, Hakkinen, Vettel e Verstappen. Ha sfruttato il talento di grandi campioni e fatto diventare grandi campioni giovani di talento, ma che ancora dovevano sbocciare come Seb e Max. Lui progetta, ancora con la matita e tavolo da disegno, loro guidano. Poi capita anche a lui di mettersi al volante perché gli piace andare veloce. Ivan Capelli che lo ha avuto a inizio carriera alla Leyton House racconta sempre che a quei tempi, per convincerlo che aveva disegnato una monoposto troppo estrema, con poco spazio per i piloti, gli prestò casco e tuta per farlo provare e Adrian, dopo un paio di giri a Le Castellet, fu obbligato ad ammettere che aveva esagerato. L’estremizzazione era uno dei suoi problemi all’inizio. Poi, con il passare del tempo, e con l’introduzione di misure limite per gli abitacoli, si è adeguato. Ma il genio è rimasto e le sue auto sono l’oggetto del desiderio di ogni pilota. “Alla Red Bull ho istituito la regola delle 24 ore. Ci diamo un giorno di tempo per riflettere su una determinata idea. Ci confrontiamo, ne parliamo e se dopo  24 ore è ancora valida, passiamo allo sviluppo dell’idea”, racconta nel suo libro, diventato il manuale indispensabile per ogni ingegnere “Come ho progettato il mio sogno”. 

“Quando vengono fuori nuove regole, come in quel periodo di transizione tra i motori turbo e i normali aspirati, io passo molto tempo a ragionare su quali opportunità ti offrono le nuove regole – ha raccontato a Ivan Capelli che lo ha intervistato per Sky – Cerco sempre delle scappatoie, situazioni in cui le regole ti chiedono di fare una cosa, ma non ti obbligano, permettendoti un modo originale di procedere”. Cerca le aree grigie. Va al limite, esattamente come un pilota in pista. Lui disegna, poi i suoi disegni vengono scansionati e trasformati in superfici 3D dai computer. A quel punto si passa alla verifica della galleria del vento che darà la prima risposta sulla bontà dell’intuizione. “Sono abituato ad avere idee in continuazione. Sugli aerei, nel bagno, nel bel mezzo della notte. Arrivano chiare e improvvise, spesso nei momenti più inopportuni…”. Forse è anche per quello che è già alla terza moglie. La seconda fu quella che lo convinse a non lasciare l’Inghilterra per Maranello. Montezemolo nel 1993 lo aveva quasi convinto, gli aveva proposto di affidargli anche il design delle Ferrari stradali. Lo aveva ricevuto nella sua casa sulle colline bolognesi, quella dove Todt si presentò in Mercedes. “C’erano le questioni di famiglia da prendere in considerazione…”. Ultimamente, nel 1997, è stato direttamente lui a respingere gli assalti in arrivo dall’Italia. In Red Bull lo trattano come un re. Gli hanno anche fatto disegnare un’auto stradale e collaborare con l’America’s Cup. Ormai non se ne andrà. “In passato sono stato tentato di andare lì, è un marchio leggendario. Fossi vent'anni più giovane...”, ha detto sempre a Sky. Compirà 65 anni a dicembre e non ha la minima intenzione di andare in pensione. Si diverte. E non lascia nulla al caso. Basta vederlo sullo schieramento di partenza, quando con il suo taccuino va a spiare le auto della concorrenza. Auto più lente, auto sbagliate. Ma lui è lì che annota lo stesso. Forse per ricordarsi bene che cosa non fare. Ha imparato molto anche dall’errore più grave della sua carriera, la Williams che costò la vita ad Ayrton Senna. “Quello che mi fa più sentire in colpa – scrive – non è la possibilità che il cedimento della colonna dello sterzo abbia causato l’incidente, perché penso non sia stato così, ma il fatto che io abbia sbagliato l’aerodinamica della macchina. Ho fallito nel passaggio dalle sospensioni attive a quelle passive… una macchina con un’aerodinamica instabile era difficile da controllare anche per Ayrton. Se solo avessi avuto più tempo…”.

Se la Red Bull ha vinto quattro titoli con Seb e sta vincendo il terzo con Max il merito è tutto di quest’ingegnere aeronautico nato a Stratford-upon-Avon, là dove venne alla luce un altro genio come William Shakespeare. Quando nel 2004 ha deciso di piantare in asso Ron Dennis per accettare la sfida Red Bull furono in tanti a prenderlo in giro. Ma quelli fanno lattine, dove vuoi che vadano? Gli bastò incontrare Dietrich Mateschitz per capire che era un uomo capace di realizzare i suoi sogni. Ha avuto fiducia nel progetto. Si è fatto pagare da re, ovviamente. Ma poi ha trasformato quelle lattine in missili e non hanno ancora smesso di volare. Trovando in Max Verstappen l’interprete perfetto. Quello che era stato Schumi per la Ferrari, quello che è stato Hamilton per la Mercedes. “Penso che Max abbia un ottimo controllo della vettura e abilità naturali. Magari ha fatto qualche errore all’inizio perché spingeva molto, ma ora è molto più fluido e guida assolutamente al limite della macchina, è molto attento. Ha un ottima comprensione delle gomme, lo abbiamo visto in diverse gare negli ultimi due anni. Ha davvero un buon feeling sul come utilizzare gli pneumatici. E sappiamo quanto il comportamento delle gomme sia un fattore importante. Credo possa essere considerato il pilota perfetto”. Ingegnere perfetto, auto perfetta, pilota perfetto. Alla Ferrari mancano almeno due ingredienti su tre.