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Il Foglio sportivo

Michael Bramos, l'uomo, la reliquia, il capitano e l'addio alla Reyer 

Francesco Gottardi

A 36 anni ha deciso di lasciare il basket: “Non voglio finito relegato sul fondo della panchina. Per questo scelgo di smettere oggi. A modo mio: mentre garantivo ancora minuti di qualità. È ora di fare il papà”

Certi miti si formano seduti attorno al fuoco. Altri in uscita dai blocchi, oltre la linea dei 6 e 75. Ma nella storia come nello sport, sono talmente densi che è insopportabile lasciarli andare alle sabbie del tempo. È così che nascono le reliquie. Ciò che rimane. Michael Bramos lo scoprì suo malgrado in un afoso postpartita di giugno 2017. Aveva appena realizzato il canestro – presagio tricolore, da qui in poi The shot – che sublimava l’ala piccola in leggenda della Reyer Venezia. Tremila e passa anime di palasport in estasi, il greco-americano come un totem al centro del parquet. “Abbracci, urla, corpi sudati che si allungavano verso di me. Perfino baci in testa. Ma soprattutto mani: tante da non poter vedere, mi toccavano e mi accarezzavano”. Tutto, pur di trattenerne un pezzetto. C’è la fede e c’è la scienza. “Il giorno dopo mi ammalai. Febbre alta: a Trento, per gara-6, scesi in campo sotto antinfiammatori e strinsi i denti. Lo scudetto arrivò comunque”. C’è la scienza e c’è la fede. “Lì per lì non mi resi conto di quel che avevamo fatto”. È servita l’idolatria dei tifosi. Quella di sé, invece, Bramos a 36 anni se la risparmia volentieri. “Non voglio diventare una reliquia vivente, relegato sul fondo della panchina. Per questo scelgo di smettere oggi. A modo mio: mentre garantivo ancora minuti di qualità”.

Ed ecco andare in atto lo Speravo de morì prima in versione lagunare. Perché cascasse il mondo – acqua granda, pandemia: poco c’è mancato – la Venezia del basket ha sempre potuto contare sul suo numero 6 che prende la mira e spara. Dopo otto anni, si contano più triple di Bramos che ponti sui canali: 494 a 436. È il primatista della Reyer per presenze assolute (389), punti (501) e minuti nei playoff (1.448). E soprattutto ha guidato gli orogranata a quattro titoli, quando gli unici nella storia del club risalivano alla guerra. Facile sentirsi smarriti, adesso, mentre la Reyer rilascia un tribute-video di mezz’ora che farebbe piangere anche i masegni di Piazza San Marco. “Anche per questo”, racconta Michael, “ho aspettato il più possibile, a stagione finita, per dire stop. Ma al 95 per cento avevo già deciso l’estate scorsa: la conferma me l’hanno data il mio corpo e la mia famiglia”. Qualche acciacco di troppo, la nascita della figlia ad aprile. “E i due maschi iniziano a fare sport: hanno bisogno di un papà che vada a vedere le loro partite”.

 

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Notare la distanza siderale, tra quel che il campione rappresenta e quel che l’uomo è. Bramos sorride, sereno, dalla sua casa nel Kentucky. È tornato per restarci. “Sono contento, zero ripensamenti. Mi prendo un anno sabbatico per recuperare la routine domestica che mi ero perso: forse allenerò le squadre scolastiche dei miei bambini. Niente di più, però”. Il futuro può attendere. Il passato si può sempre tirare a lucido. “Cosa vedo, alle mie spalle? Un giocatore grato. Quando nel 2015 arrivai a Venezia, non sapevo granché della Reyer né della città: avevo solo ansia di ricominciare. E ripagare l’unica realtà che mi stava offrendo una chance”. Fino a qualche mese prima c’erano il Panathinaikos, la nazionale greca, il profumo dell’Nba. Poi il lungo infortunio che tutto cambiò. “Il resto lo fece quel che trovai in centro storico e al Taliercio”.

Vivere per credere. “Un’atmosfera mai vista”, spiega l’ex capitano. “Dall’head coach all’ultimo dei magazzinieri, qui la cultura del lavoro si completa con amicizie durature”. Ricordi sparsi. “I cubetti di ghiaccio che ci lanciava Vidmar sotto la doccia. Ma anche i viaggi, le tante conversazioni profonde. E i passaggi di Julyan Stone: gli bastava uno sguardo per sapere che avrei segnato”. A parlare di compagni e avversari, Bramos si imbarazza un po’. “Non vorrei dimenticare qualcuno”. Passiamo alle partite, allora. 

E si arriva all’altro capolavoro di Bramos. Se la tripla in faccia a Trento fu il paradiso all’improvviso, gara-7 contro Sassari è stata l’apoteosi, “il culmine di un percorso lungo e consapevole. Eravamo pronti a mettere le mani su quella partita. E quando c’è fiducia, molte cose possono accadere”. Come 11 punti personali in due minuti. Roba da Playstation. “Ma sono umano anch’io”, sottolinea Iron Mike. “Altrimenti non mi sarei lasciato prendere dall’emozione”, fosse anche un fallo tecnico a sfavore: un’inezia, rispetto al contesto e a una carriera da signore. “Cosa dissi alla panchina avversaria? Una cosa tipo game over. Fu un rilascio di adrenalina incontrollato. Un errore di due secondi. Ci tengo a ribadire le mie scuse a Sassari”.

Mancherà al basket, un personaggio come Bramos. Il contrario però, vale solo a metà. “Giorni fa rileggevo una frase di Jokic: ‘È un lavoro che mi riesce, ma non è la mia vita’. Mi ha fatto sorridere perché mi ci ritrovo”. E se l’analogia tecnica non esiste, si pensi all’attitudine. La bandiera della Reyer come il dominatore dell’Nba: umile, niente social, fastidio per i riflettori, un mondo parallelo gelosamente custodito. Michael non ha i cavalli, “ma i figli, il golf, le nuotate in mare e qualche lettura. La pallacanestro si inserisce in equilibrio col resto”. È dall’assenza di pressioni che fiorisce la reputazione – “e a questa ci tengo” – di clutch player. “Cerco di farlo capire alle nuove generazioni: in partita non ho paura di sbagliare perché mi sono preparato in allenamento. Finché sento di aver dato il massimo, posso andare a letto tranquillo. E questo vale oltre lo sport”. Bramos va ascoltato. Basta lacrime. 

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