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la quarta tappa

Tour de France. Il dardo è Philipsen, la fionda è van der Poel

Giovanni Battistuzzi

Il belga vince a Nogaro la sua seconda tappa alla Grande Boucle. Sembrava spacciato a cinquecento metri dal traguardo, poi il campione olandese ha fatto una magia. Secondo Ewan, terzo Bauhaus

La solitudine è una dimensione del pedalare secondaria, quasi elitaria se di mestiere si fa il corridore professionista. È un’ambizione, qualcosa a cui si punta. È faticoso cercarla, difficile trovarla, ripaga sempre, a patto che si sia inseguiti. Quando appare in coda a tutti, solitamente è un supplizio, una fatica bestiale e basta, nella quale anche la speranza va più forte, ci si ritrova staccati anche da essa. Non sempre è possibile raggiungere la solitudine, si materializza raramente, per qualcuno è più semplice, in ogni caso mai facile. A volte è oltremodo complicato. Soprattutto quando non ci sono le salite. La pianura è comunitaria, considera lo stare soli stramberia se non eresia. La volontà dei tanti piega sempre quella dei pochi, vale la legge del gruppo e la legge del gruppo porta sempre alla stessa conclusione: la volata.

Tra Dax e Nogaro, secondo la geografia, quasi mai lineare, del Tour de France c’erano 181 chilometri, c’era un lungo su e giù per la pianura, che pianura non lo è mai davvero – o almeno per la concezione padana, nel senso di pianura, del termine –, francese: questo offre la Francia. C’era la volontà delle squadre dei velocisti di dare loro un’occasione e i velocisti sono tanti e determinati, anche perché è ancora la quarta tappa. E allora via tutti assieme, non troppo velocemente, sino all’arrivo. Una processione comunitaria a eccezione di Benoît Cosnefroy e Anthony Delaplace, a prendere aria per una sessantina di chilometri con pochissime possibilità di arrivare all’arrivo e, a dire il vero, anche poca convinzione di riuscirci.

Che in gruppo si pedala meglio è vero, se non si è davanti a tirare si fa molta meno fatica, ma è una verità a tratti illusoria. Soprattutto negli ultimi chilometri, quando la velocità sale e all’aumentare di questa gli spazi sembrano farsi più stretti. Se si vuole avere qualche possibilità di fare una buona volata tocca stare davanti, ma davanti ci vogliono stare tutti e il rischio di finire a terra aumenta esponenzialmente. Più di qualcuno a terra c'è finito, molti possibili protagonisti. Non si può fare a meno di stare nelle prime posizioni però, quindi tocca rischiare, partire troppo dietro significa avere meno possibilità di vittoria. Funziona così, sempre e da sempre così. A patto di non avere una fionda capace di lanciarti a velocità doppia degli altri.

Jasper Philipsen non ha una fionda in dotazione, ma ha la fortuna di avere in squadra Mathieu van der Poel, che non è una fionda, è molto meglio. È una specie rara di mago che ha la capacità ad accorciare lo spazio e ad accelerare il tempo.

In quel gioco di spallate ad alta velocità e traiettorie ballerine che è andato in scena nel circuito di Nogaro, Jasper Philipsen sembrava spacciato agli ultimi cinquecento metri. Era indietro, troppo indietro. La vittoria sembrava essere destinata ad altri, a tutti quelli, e non erano pochi, che si trovavano davanti a lui. Poi è entrato in scena Mathieu van der Poel. L’olandese ha trovato uno spazio buono per passare, ha rimontato una decina di posizioni, ha aumentato la velocità. Quando si è spostato - il tutto è avvenuto in qualche centinaia di metri - Jasper Philipsen si è ritrovato quasi in testa. Toccava solo a lui. Doveva fare quello che sa fare meglio: pedalare velocissimo. Lo ha fatto. Ha preso la testa del gruppo e non l’ha mollata più. Si è prodigato in un colpo di reni nemmeno perfetto, ma abbastanza buono per tenere dietro quello perfetto di Caleb Ewan. Primo a oltrepassare la linea d’arrivo, secondo successo al Tour de France, e consecutivo. Non era scontato, poteva andare diversamente, per qualche istante sembrava impossibile. È successo.