Massimiliano Farris e Simone Inzaghi (foto Italy Photo Press)

Il Foglio sportivo

L'uomo che prova a far cambiare le idee a Inzaghi

Giuseppe Pastore

“Massi che facciamo?”. Alla scoperta di Massimiliano Farris, il vice, amico, confidente e un po’ body-guard dell’allenatore dell’Inter. Insieme, andranno all’assalto della Champions

“Sono certo che il ragazzo morirà sul campo. Deve farmi cento volte il campo su e giù. Ho detto alla squadra: se non lo conoscete, dategli la palla. Se vi sembra esausto, ripartirà”. Domenica 4 giugno 1989 Sergio Vatta, il mago del Filadelfia che ha svezzato generazioni di giovani granata, ha il coraggio di giocarsi la salvezza affidando la maglia numero 3 del Torino a un esordiente di 18 anni: Massimiliano Farris da Milano, acquistato pochi mesi prima dalla Pro Vercelli. All’imbocco del tunnel lo aspetta Franco Costa con il microfono della Domenica Sportiva: emozionato? “Scendiamo in campo determinati per fare il miglior risultato possibile”. Parla già da perfetto vice. Quel Torino-Ascoli si rivela una domenica drammatica, bloccata su un inutile 1-1, con tanto di rigore sbagliato da Müller. A fine partita la gente granata assedia imbufalita gli spogliatoi: il presidente Borsano tenta di disperderla parlando al megafono. Il giovane Farris, naturalmente l’ultimo dei colpevoli, di quell’amarissimo giugno conserverà sempre un sapore agrodolce, legato alle sue uniche quattro presenze da calciatore di Serie A, giusto per accompagnare il Toro in Serie B dopo trent’anni. Un giorno tutto quel dolore gli sarà utile.

 

Passano 25 anni. Mercoledì 4 giugno 2014 Farris viene da una tribolata stagione in riva al fiume Liri, dove ha portato il Sora all’undicesimo posto del Girone G della Serie D nonostante una dirigenza-fantasma e sette mesi di stipendi non pagati. Spossato dall’esperienza, si concede un salto in Romagna dove sono in corso le Finali del Campionato Primavera. Assiste alla prima semifinale, il derby Lazio-Roma vinto 3-2 dai biancocelesti (in gol anche il mitologico Minala), e nel corso della seconda, Atalanta-Torino, viene raggiunto sugli spalti del “Romeo Neri” di Rimini da un amico che gli presenta l’allenatore della Lazio finalista: si chiama Inzaghi. Se la memoria di Simone è inesorabile come quella di suo fratello, è possibile che si sia subito ricordato di un lontano Brescello-Fiorenzuola del novembre 1997 in cui il giovanissimo Inzaghino era stato marcato proprio da Farris, che componeva la coppia centrale con un esperto parmigiano a fine carriera, un certo Stefano Pioli. Alle prime battute il discorso di Inzaghi cade subito su faccende tattiche: mi servirebbe allargare lo staff con un esperto della fase difensiva, ti andrebbe di darmi una mano?

 

Il 3 giugno 2023, a trentaquattro primavere di distanza dall’esordio in Serie A, Massimiliano Farris torna nello stesso stadio con il solito ruolo di copilota in questo lunghissimo sabato del villaggio che porta fino a Istanbul. Nel calcio che crea e brucia “personaggi” alla velocità della luce, Farris appare come una delle figure meno giornalisticamente attraenti del momento, coerentemente al seguito di un allenatore che non fa dell’arte comunicativa il proprio fiore all’occhiello. Di lui non si ricorda non dico una frase celebre, ma nemmeno una di quelle scenate da fine serata in osteria di un Foti o un Landucci: al massimo una scaramuccia con Allegri in finale di Coppa Italia o una polemica a distanza con Gasperini sugli strascichi di un’altra vecchia finale di Coppa Italia “che sta a Formello in bella mostra” – e del resto, se sei ombra fedele di Inzaghi, di finali di Coppa Italia ne vedrai parecchie. Dato in pasto alle telecamere solo nei più acuti casi di raucedine del titolare, Farris se ne sta concentrato sul placarlo e placcarlo, vestendo i panni dell’amico, del confidente, del bodyguard, del super-esperto in fase difensiva, specializzato nella cura maniacale dei movimenti dei “terzi”, o dei “braccetti” secondo orribile definizione dei tempi moderni: Bastoni, Darmian, Skriniar prima che sparisse dai radar.

 

“Massi, che facciamo?”, gli urla ancora oggi Inzaghi, colorando la domanda con più o meno imprecazioni a seconda della drammaticità del momento. Altre volte Farris lo riconduce a più miti consigli, magari quando gli viene la fregola di sostituire un ammonito già a metà primo tempo, ossessionato dai doppi gialli (ricordate il doppio cambio a Udine di Bastoni e Mkhitaryan?). Farris è uno degli ultimi depositari dei segreti del perfetto secondo, figura in via d’estinzione, fagocitata dalla frenesia del calcio, da staff sempre più voluminosi che parcellizzano le competenze tecniche e dalle legittime ambizioni di chi sceglie di fare il vice non per vocazione, ma come passepartout per un primo incarico. Farris non aveva esperienza da primo allenatore sopra la Serie D e probabilmente non ne avrà mai: allenare l’Inter è il massimo della vita, per lui milanese di osservanza nerazzurra, anche se trapiantato a Viterbo da quasi vent’anni.

 

Tre figlie, una moglie juventina incontrata da avversaria in un derby Primavera a fine anni Ottanta, una fascinazione tecnica per Maurizio Sarri che lo allenò per due anni alla Sangiovannese, quando Sarri era molto più ruspante di ora e non faceva vedere il campo a chi indossasse scarpini bianchi o la fascetta tra i capelli. Tra tutti gli uomini di Inzaghi non è nemmeno il più longevo: prima di lui ci sono il preparatore atletico Fabio Ripert e il match analyst Ferruccio Cerasaro, il mago dei calci piazzati che ha tenuto in esercizio la squadra per più di un’ora prima del derby di Champions, con il risultato di sbloccare il risultato dopo sette minuti nel modo che sappiamo. Tutti e due seguono Inzaghi dal 2010, dal suo primo incarico agli Allievi Regionali della Lazio: la prova regina della straordinaria abitudinarietà di Simone Inzaghi, uno che non cambia sistema di gioco da sei anni, figuriamoci i colleghi. Così l’immutabile Farris – uno che conserva gli stessi tratti somatici di quella prima intervista a 18 anni alla Domenica Sportiva – diventa uno dei tanti segni distintivi dell’italianissimo Inzaghi, che con scaramanzia e buonsenso italiano tra una settimana andrà all’assalto (si fa per dire) della più rutilante macchina da calcio dei tempi moderni.