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Quel giorno a Wembley sessant'anni dopo. Milan e Benfica, che fatica!

Gino Cervi

Era il 22 maggio del 1963 quando quella rossonera divenne la prima squadra di calcio italiana a vincere la Coppa dei Campioni

Sono circa le 16.15 del 22 maggio 1963 e a Londra, nell’Empire Stadium di Wembley, Milan e Benfica si stanno giocando la finale dell’ottava edizione della Coppa dei Campioni. Se qualcuno fosse andato quel giorno a leggere l’Albo d’oro della competizione, avrebbe scoperto che la Coppa dalle Grandi Orecchie, inventata dai francesi nel 1955, non aveva mai lasciato la penisola iberica. I primi cinque tornei erano infatti stati vinti dall’Invencible Armada Blanca del Real Madrid di Alfredo Di Stéfano e Francisco Gento, di Raymond Kopa e José Santamaria, di Héctor Rial e Ferenc Puskas. Alla tirannia del blancos, del presidente franchista Santiago Bernabeu, si sostituì poi il Benfica, trionfatore per due stagioni consecutive.

Le Aquile rosse di Lisbona erano una squadra magnifica, innervata da formidabili campioni provenienti dalle colonie portoghesi africane: alcuni, come il portiere Costa Pereira e il centravanti José Aguas erano figli di portoghesi cresciuti, rispettivamente, in Mozambico e Angola; altri come il mozambicano Mario Coluna e l’angolano Joaquim Santana erano a tutti gli effetti calciatori africani, i primi in assoluto a imporsi come grandi campioni nei tornei europei, nazionali e internazionali. Su tutti però brillava la stella di Eusebio, nato a Lourenço Marques, ma da padre angolano, il più grande talento del calcio portoghese prima dell’avvento di Cristiano Ronaldo.

Il Benfica aveva battuto in finale il Barcellona nell’edizione 1960-61 e, l’anno dopo, proprio il Real Madrid. Se in Spagna dei trionfi del Real si faceva vanto e consenso la dittatura di Francisco Franco, al potere assoluto dal 1939, in Portogallo sui successi internazionali del Benfica approfittava la politica repressiva dell’Estado Novo, instaurato fin dal 1932 dal presidente Antonio Salazar. Erano però anche gli anni in cui l’autoritatismo conservatore di Salazar incominciava a venir messo a dura prova dalle rivoluzioni indipendentiste delle colonie d’oltremare. I calciatori africani del Benfica in quegli anni diventarono un simbolo di un possibile riscatto politico da parte dei movimenti insurrezionali. Ricorda lo scrittore Antonio Lobo Antunes, a proposito degli anni della guerriglia indipendentista in Mozambico e in Angola: "Quando in Portogallo giocava il Benfica noi appendevamo degli altoparlanti, regolati a tutto volume, fuori dagli accampamenti. Era un modo per far sentire la radiocronaca ai guerriglieri del movimento di liberazione, tifosissimi del Benfica, la cui stella era il mozambicano Eusebio. I combattimenti allora s’interrompevano per 90’ e dalla selva non si udiva neppure un fruscio. Finita la partita, ricominciavamo a spararci. E l’intensità del fuoco dipendeva dal risultato".

Sulla panchina di quel vittorioso Benfica sedeva l’ungherese Bela Guttmann, istrionico allenatore giramondo che, a metà anni Cinquanta, aveva guidato anche il Milan per poco più di un anno e senza grandi risultati, tranne però il merito di aver fatto acquistare Cesare Maldini dalla Triestina. Dopo la seconda vittoria Coppa dei Campioni vinta col Benfica, Guttmann venne sollevato dall’incarico per un diverbio contrattuale. La leggenda vuole che l’ungherese lanciasse la sua maledizione: "Il Benfica senza di me non vincerà più nessuna Coppa dei Campioni!". Un anatema che andò a segno già dalla stagione seguente.

È dunque il 13esimo minuto del secondo tempo a Wembley, in quel pomeriggio di maggio e il risultato vede i portoghesi, detentori del titolo, in vantaggio per 1-0. La palla arriva sulla trequarti a Rivera, che prova un sinistro da lontano. Il tiro rimpalla su un difensore e finisce tra i piedi di Altafini in mezzo all’area. José si gira rapido e la fionda nell’angolo basso, imprendibile per Costa Pereira. Milan 1, Benfica 1.

I portoghesi erano partiti forte, ma dopo essere passati in svantaggio i rossoneri, in maglia bianca, che dapprima erano sembrati disorientati di fronte alle folate delle aquile rosse, ritornano a poco a poco in partita. Proprio sui piedi José Altafini erano capitate almeno tre buone occasioni per ristabilire la parità, ma le aveva sbagliate tutte. Il brasiliano allargava sconsolato le braccia e, rivolto ai compagni che cominciano a sacramentare, sembrava dire: "Non so cosa mi succede, oggi". E chissà cosa stava pensando in tribuna Gipo Viani, il general manager del Milan, che, nonostante tutti gol – molti più di cento –, che Altafini aveva già segnato in maglia rossonera da quando, con il soprannome di “Mazzola” – perché ricordava il grande Valentino –, era arrivato dal Palmeiras cinque anni prima, stagione 1958-59, e nonostante i due scudetti vinti – 1959 e 1962 – proprio grazie ai suoi gol continuava a credere che il brasiliano non avesse abbastanza coraggio. Infatti lo aveva ribattezzato Coniglio.

Eppure quel giorno, sul prato di Wembley, Josè non si risparmia. Il peso dell’attacco è tutto sulle sue spalle. Nereo Rocco, l’allenatore, e Gipo Viani hanno deciso alla vigilia di rinunciare alla seconda punta, l’ala sinistra Paolo Barison, e di inserire un mediano, l’esperto Gino Pivatelli. A Pivatelli va il compito di seguire come un ombra Eusebio, il fuoriclasse di lusitani. Ma il povero Gino non ce la fa. La Pantera Nera gli scappa da tutte le parti, proprio come al 18esimo del primo tempo, quando con una progressione da duecentometrista è entrato in area e ha battuto Ghezzi con un diagonale al fulmicotone. Per fortuna dei rossoneri, però, resta il solo gol di svantaggio.

Negli spogliatoi Rocco alza la voce, però a modo suo. Da Paròn, ma anche da padre. Lui, al contrario di Gipo Viani, stravede per quel mattocchio di José, che si ostina a chiamare Jose. È talmente matto Jose che alla vigilia aveva detto ai compagni: "Ho buone sensazioni, sono un giocatore fortunato ma vedrete che il mio vero culo finora non è ancora venuto fuori. E domani ve lo dimostrerò". A dire il vero, e a vedere tutte le occasioni che il buon José si è mangiato nel primo tempo e anche a inizio ripresa, i compagni cominciano a disperare.

Le cronache raccontano che le sorti di quella finale di Coppa dei Campioni, tra i favoritissimi detentori del Benfica e il Milan, di decidano in tre mosse. La prima è il cambio di marcatura su Eusebio, deciso sul campo, a metà primo tempo, dal capitano, Cesare Maldini: che a Eusebio di pensi Giovannino Trapattoni, da Cusano Milanino, prodotto del vivaio rossonero; e che Pivatelli incroci i movimenti di Mario Coluna, il faro del centrocampo dei lusitani. La seconda è proprio il gol del pareggio, abbastanza casuale rispetto alle tre occasioni avute in precedenza, di Altafini, che fa sospettare che José avesse ragione, riguardo al suo “culo”. La terza, che i più maliziosi ritengono decisiva, è che il “povero Gino Pivatelli”, vecchio mestierante, si riscatta dalla bambola iniziale e rifila una stecca alla caviglia di Coluna. Se Eusebio era il braccio implacabile, Coluna, detto il Mostro Sacro, era la mente sopraffina di quella formidabile squadra. A quell’epoca di sostituzioni neppure si parlava e così il capitano e guida delle Aquile viene costretto a zampettare lungo la linea dell’out, e per il resto della partita la sua è una presenza di solo onor di firma.

Passano sei minuti e al 21’ del secondo tempo, il “culo” di Altafini si mostra al mondo. Rivera ruba palla a metà campo e lancia José che ha una prateria di fronte. Corre e corre senza che nessuno lo prenda e, entrato in area, tira. Tira però addosso a Costa Pereira in uscita. I compagni che guardano l’azione da lontano non fanno però in tempo a tirare bestemmie che il pallone, per miracolo o per culo, ritorna sui piedi di José che questa volta non sbaglia. Mario David corre ad abbracciarlo e gli dice: "Se lo sbagliavi anche stavolta, giuro che ti ammazzavo". È 2-1. E 2-1 resterà fino alla fine. A fine partita i tifosi italiani invadono il campo per rubare magliette e pantaloncini ai loro idoli: Rivera festeggerà la premiazione in tribuna indossando un’improbabile trench recuperato da chissà chì. Il Milan a Wembley è la prima squadra italiana a vincere una Coppa dei Campioni e a spezzare l’egemonia tutta iberica, e un po’ fascista, delle prime sette edizioni del torneo.

 

In quel maggio 1963 Antonio Tabucchi aveva vent’anni. Avrebbe scritto molto tempo dopo che fino ad allora quel che gli italiani sapevano del Portogallo, estremo lembo occidentale del continente europeo, si riduceva «"al miracolo di Fatima (il cui Terzo segreto, se rivelato, prometteva a sua volta cose straordinarie); una sconosciuta Lisbona cheia de encanto e beleza, piena di incanto e bellezza, come avevamo appreso dalla voce straordinaria di Amália Rodrigues; e a Eusébio, straordinario calciatore".

E, sempre in quel maggio 1963, a Bologna, un altro ventenne quasi sconosciuto suonatore di clarinetto, iniziava la sua carriera partecipando al Cantagiro. Sarebbero passati ancora molti anni, sedici per l’esattezza, Milan e Benfica entrassero nei versi di una sua canzone. Che campioni, che coppa! E che fatica!

 

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