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Quando Valentino Mazzola diventò eroe

Gino Cervi

Storia di Tulén e Ciapìn. Il capitano del Grande Torino e Andrea Bonomi, mediano del Milan: un’amicizia in riva all’Adda

Abdua è il nome latino del fiume Adda. Pare che derivi da una parola di origine celtica, che significa “acqua che scorre”. L’acqua dell’Adda per 313 chilometri scorre, dalle Alpi Retiche e per tutta la Valtellina, fino al lago di Como, e da qui, come un’ordinata padana, da Nord a Sud, fino all’ascissa del Po. La sua corrente ha catturato l’estro di Leonardo, che l’ha ritratta come sfondo della Vergine delle Rocce, e suggestionato quello di Manzoni.

 

“Quanto c'è di qui all'Adda?” chiede Renzo, in fuga da Milano, provando a fare il vago per non attirare troppo la curiosità dell’oste. Ma gli osti, si sa, sono curiosi di natura: “All'Adda, per passare? […] Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica?”, gli risponde. “Dove si sia... Domando così per curiosità”, cerca di dissimulare il povero Renzo. “Eh, volevo dire, perché quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sé”, precisa l’oste, che ha già sgamato il clandestino Renzo che dopo quello che gli è successo a Milano “non può dare conto di sé”.

 

A Cassano l’Adda esce dall’incasso della valle e si apre alla pianura. Davanti al borgo, sulla sponda lombarda, il fiume si ramifica e forma isolotti: l’isola del Bosco Bertolino, l’isola del Linificio, l’isola Ponti e tanti altri isolotti tra l’Adda e la Muzza, un ramo morto dell’Adda, trasformato in canale irriguo fin dai tempi dei romani, la fossa Mutia.

 

È l’estate del 1929. Sono i giorni in cui, tra fine giugno e inizio luglio si stanno giocando le finali per l’assegnazione del titolo di squadra campione del torneo di Divisione Nazionale di calcio, l’ultimo prima dell’introduzione del campionato a girone unico. Se lo contendono il Bologna di Schiavio e Monzeglio e il Torino di Baloncieri e Libonatti: nella gara d’andata, il 23 giugno, allo Stadio del Littoriale, i rossoblù hanno vinto 3 a 1; nella gara di ritorno, il 30 giugno, allo Stadio Filadelfia, i granata hanno pareggiato i conti, vincendo 1-0. All’epoca non si contava la differenza reti e i gol segnati in trasferta e allora bisogna andare allo spareggio, che si disputa a Roma, il 7 luglio, alle ore 17, allo Stadio del Partito Nazionale Fascista: all’incontro, insieme a oltre 25.000 spettatori, vi assistono Mussolini e tutti i ministri.

 

Non vi assistono e non se ne curano i ragazzi che in quel pomeriggio, a Cassano, hanno deciso di scendere all’Adda a fare il bagno. Sono una masnada di monelli che sembrano usciti dalle Avventure di Tom Sawyer ma che invece sono cresciuti tra i vicoli del Ruscett, il Ricetto, il rione più povero del paese, quello all’ombra del grande castello visconteo che svetta a guardia del fiume da quasi settecento anni. L’Adda sembra il Mississippi. Giocano sul rivone scalzi, mezzi nudi. Corrono dietro a un pallone di stracci. Partite infinite. interrotte soltanto da qualche bagno nell’acqua. I grandi lo dicono sempre di stare attenti, che l’Adda e i suoi gorghi sono insidiosi. Loro dicono di sì, cioè no, che non ci andranno. Ma alla fine chi resiste col caldo che fa?

 

A Roma, allo stadio, mancano venti minuti alla fine della partita e non il risultato è ancora bloccato sullo zero a zero. Tra infortunati ed espulsi, il Bologna si era ridotto in 9 uomini, il Torino in 10: ma al 72’, si ferisce e lascia il campo anche il granata Vezzani. Un attimo dopo Angiolino Schiavio scatta in contropiede sulla destra e, dopo quaranta metri di corsa solitaria, mette in mezzo. La difesa del Torino è fuori posizione e lascia liberissimo in area l’ala sinistra bolognese Muzzioli che con tiro forte e centrale batte il portiere granata Bosia: 1-0. Il risultato non cambia negli ultimi minuti e il Bologna vince il suo secondo titolo nazionale.

 

I monelli di Cassano intanto hanno finito di rincorrere la palla di stracci e si sono buttati in acqua. Qualcuno azzarda qualche bracciata: i più arditi nuotano col mezzo busto fuori dall’acqua, tutti gli altri a cagnolino. Qualcuno dei più grandi e bulli si esibisce un tuffo. Tra i più piccoletti ce ne uno coi capelli neri neri che si fa coraggio e prova anche lui. Lo vedono andare sotto. Tre secondi, cinque, dieci. Non riemerge. Gli altri bambini si guardano. Stupiti prima, atterriti poi, a qualcuno si stampa in faccia un sorriso sciocco di paura. Iniziano a gridare: “Ciapìn, Ciapìn!”. Tutti lo chiamano Ciapìn, ferro di cavallo, perché dicono che porti fortuna portarselo dietro. Ma in quel momento nessuno si sente fortunato. Tutti urlano, però stanno fermi, come impietriti. L’unico che si muove è Tulèn. Ha dieci anni e i capelli biondi e ricci. È quello che passa il tempo a dar calci a tutto quel che trova, un pallone di stracci, o un barattolo di latta per strada, un tulèn appunto. Tulèn si butta nell’Adda, qualche bracciata ed è lì. Ciapìn è riemerso per un attimo, galleggia riverso. Ma la corrente lo sta portando via. Tulèn nuota che sembra un adulto. Lo raggiunge, gli mette un braccio intorno al collo e con l’altro braccio e le due gambe, che ha già forti più dei suoi coetanei, spinge in senso contrario alla corrente. Intanto anche altri ragazzi si son scossi e si buttano in acqua a dare una mano. Raggiungono Tulèn e fanno una catena: a fatica riportano Ciapìn a riva. Ha battuto la testa contro un sasso sul fondo del fiume ed è svenuto. Adesso mentre gli muovono braccia e gambe, e gli schiacciano il petto, sta rinvenendo e tossisce fuori tutta l’acqua dell’Adda che ha bevuto. Vorrebbe piagnucolare per lo spavento, ma si vergogna. In piedi, bagnato e lucido il piccolo corpo muscoloso, con i riccioli biondi scintillanti di gocce, Tulèn lo guarda serio, ma poi sorride. Tutti gli altri intorno gli danno pacche sulle spalle: “Bravo, Tulèn!”.

 

È il 22 novembre 1942, Torino, Stadio Mussolini. È l’ottava giornata del Campionato di Serie A. A centrocampo si schierano le squadre. Da un lato il Torino in maglia e pantaloncini granata, dall’altra, maglia a strisce larghe rossonere e pantaloncini bianchi, il Milano. I giocatori si stringono cavallerescamente la mano prima del match: quando arriva davanti al numero 4 del Milan il numero 10 del Torino sorride e dice piano: “Ciau Ciapìn!”. “Ciau Tulèn!”, risponde il 4. Si abbracciano e poi comincia la partita.

 


 

Quella che avete letto è la storia, un po’ romanzata, di un salvataggio vero, avvenuto nelle acque dell’Adda in una giornata dell’estate del 1929.

 


Un'immagine tratta da Archivio Magliarossonera della partita di esordio di Bonomi a Torino. Ciapìn è di spalle con il numero 4, Mazzola sta invece saltando con la maglia del Torino


 

La partita del 22 novembre 1942 è un Torino-Milan, che si disputa all’ottava giornata del girone di andata del Campionato di calcio di serie A, stagione 1942-43. I granata ospitano i rossoneri. Tulèn, il numero 10 del Torino, è Valentino Mazzola, acquistato nell’estate dal Venezia dal presidente del Torino, Ferruccio Novo, per la cifra di un milione e 250.000 lire. Mazzola è nato a Cassano d’Adda il 26 gennaio del 1919. Dopo esser cresciuto nel Gruppo Sportivo Tresoldi, nel 1938, a diciannove anni, passa a giocare a Milano nella squadra del dopolavoro dell’Alfa Romeo che gli assicura anche un posto da operaio in fabbrica. Nel 1939 viene chiamato alla leva militare e inviato in Marina, di stanza a Venezia. Messo sotto contratto dalla squadra lagunare, per la quale gioca, da centravanti e da mezzala, fa il suo esordio in serie A il 31 marzo 1940, a Roma, contro la Lazio. Nella stagione successiva, insieme al coetaneo e amico, il fiumano Ezio Loik, guida il Venezia alla conquista della Coppa Italia, a oggi unico trofeo nazionale nella storia della società calcistica lagunare. Il 5 aprile del 1942 aveva esordito in nazionale, a Genova, contro la Croazia, con una vittoria per 4-0; stesso risultato, due settimane dopo, a San Siro, contro la Spagna, partita in cui Mazzola segna il suo primo gol in maglia azzurra. Nella stagione 1942-43 passa, con Loik, in maglia granata e diviene il capitano e il simbolo del Grande Torino, la formidabile squadra che vince cinque scudetti consecutivi, dal 1943 al 1949, con in mezzo l’interruzione di guerra, prima di venire sterminata dalla sciagura aerea di Superga, il 4 maggio 1949.

 

Ciapìn, il numero 4 del Milan, è Andrea Bonomi, nato a Cassano d’Adda il 14 febbraio del 1923. Anche lui ha iniziato a giocare a calcio in riva all’Adda, prima di diventare, proprio come Valentino, un calciatore-operaio con la maglia Dopolavoro Pirelli, in serie C. Da qui nel 1942, ma per sole 500 lire, passa al Milan, anzi al Milano, come voleva l’autarchia fascista. Fa il suo esordio in serie A proprio in quel 22 novembre, a Torino, contro il Torino del suo amico Valentino. Giocherà per dieci stagioni in maglia rossonera, indossandola in 266 partite, e segnando 4 gol: dal 1949 è anche capitano della squadra. Bonomi è un onesto mediano, che qualche volta viene schierato anche terzino e fa parte di quella linea di giocatori essenziali e concreti composta da Carletto Annovazzi e Omero Tognon che nel 1951, insieme al fantastico trio svedese del Gre-No-Li, riporta il Milan a vincere uno scudetto dopo 44 anni di digiuno. Bonomi muore il 21 novembre del 2003 e di lui Nils Liedholm ricorderà la schietta generosità con la quale cercava di mettere a suo agio gli stranieri appena arrivati in squadra e che non parlavano una parola di italiano: peccato che Bonomi parlasse solo milanese.

 

Per la cronaca, quel Torino-Milan del 22 novembre del 1942 fini, a sorpresa, con una vittoria per 1-0 dei rossoneri, ancora “cacciaviti”, ovvero la squadra “operaia” di Milano (l’Ambrosiana Inter è quella della buona borghesia “bausciona”) che anche nello stile di gioco, sbrigativo e per nulla estetico, riflette lo spirito della classe proletaria milanese. Lo stesso risultato si ripeté anche nella gara di ritorno (gol di Gino Cappello), in cui non giocò però Bonomi. Le due sconfitte contro il Milano non impedirono al Torino di Mazzola di vincere il campionato con 44 punti, quindici in più del Milan, arrivato sesto a pari merito con Bologna e Fiorentina, e di avviare lo straordinario filotto di vittorie nazionali, interrotto solo dalla sospensione a causa della guerra e poi fatalmente spezzato dalla tragedia di Superga.

 

Mazzola e Bonomi in campionato si ritrovarono ancora uno di fronte all’altro in 8 occasioni: per 6 volte vinse il Toro di Mazzola (e per quattro volte Valentino andò a segno) e per due il Milan di Bonomi, senza però che Ciapìn facesse gol, anche perché il suo mestiere era più che altro quello di non farli fare agli altri: in un decennio di militanza in rossonero ne segnò soltanto 3.

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