Un altro Giro

Le fughe ciclistiche di Lucio Di Federico

Marco Pastonesi

Nel 1976 l'abruzzese fu l'italiano più vincente tra i dilettanti. Ottimo scalatore, gran coraggio. Poteva andare diversamente la sua carriera. Poco male, "amavo la bici più di me stesso", ha continuato a pedalare

La corsa rosa è un giro di ricordi e sogni, avventure e disavventure, imprese e crisi, storie e passioni. Un altro Giro è la rubrica di Marco Pastonesi che ci accompagnerà strada facendo sulle strade del Giro d'Italia 2023.

 


      

Il Giro d’Italia 1978 fu l’ultimo per Felice Gimondi e Franco Bitossi, campioni, il primo e ultimo per Lucio Di Federico, gregario.

Origine abruzzese: “Nato a Pescara, ma di San Silvestro, l’unica frazione di Pescara, a tre chilometri dal mare”. Radici contadine: “Padre contadino, madre contadina”. Studi pratici: “Elementari, medie, poi professionali, elettricista e radiotecnico, nessun diploma ma un attestato”. E la bici: “La prima, quella di mio padre, andavo in giro per il paese, tornavo a casa e le prendevo perché non avevo chiesto il permesso, sapevo che il permesso non mi sarebbe mai stato dato”. Poi, finalmente, la sua bici: “Era la bici di un amico, che aveva corso con Vito Taccone. Gliela pagai novemila lire. Stava in soffitta, dimenticata, arrugginita, polverosa. La riverniciai con il pennello. E su quella cominciai a correre”. A correre anche le corse: “Merito dei vecchietti del paese. Sedevano ai tavolini di un bar, giocavano a carte, mi videro pedalare, mi proposero di iscrivermi a una squadra”. La prima squadra: “L’Adriatica Arredamenti, oggi la Aram, diretta da un altro che aveva corso con Taccone, ma da professionista, Silvestro La Cioppa, uno scalatore che veniva dal mare, da Francavilla, prima di un altro scalatore che veniva dal mare, Marco Pantani, da Cesenatico. Ci svegliavamo alle 4 di mattina, caricavamo un’A112, o una 124 quando andava bene, andavamo in Toscana o in Emilia, e tornavamo di notte”.

Ragazzo prodigio, Di Federico: “Vivevo per la bici. Non pensavo che alla bici. Dormivo con la bici. Il primo anno, siccome non sapevo stare in gruppo, andavo sempre in fuga, mai la fuga è arrivata al traguardo, però intanto mi facevo le ossa, cioè i muscoli e la grinta. Tant’è che il secondo anno ne vinsi 12. Poi gli anni da dilettante, il più felice l’ultimo, nel 1976, quando ne vinsi 19, fra cui la Piccola Sanremo e una tappa del Giro d’Italia. Ero il dilettante italiano più vittorioso”. A quel punto, un bivio: “Passare alla Del Tongo, un altro anno da dilettante, poi il debutto tra i professionisti, il tutto con un assegno da 50 milioni. Oppure passare alla Jolljceramica, subito tra i professionisti. Siccome non vedevo l’ora di passare tra i professionisti, scelsi la Jolljceramica. E non fu la scelta giusta”.

I primi mesi furono felici: “Il raduno, il ritiro, gli allenamenti, i compagni. Mi sembrava di sognare. Sulle salite li staccavo. ‘Vai più piano’, mi ordinavano i capitani. ‘Mai mettere le ruote davanti a quelle dei capitani’, si raccomandavano gli altri gregari. Poi le corse: il Giro di Sardegna, la Tirreno-Adriatico, la Milano-Sanremo. Un mondo avventuroso tra fughe e inseguimenti, sogni di gloria e giornate di acqua e neve. Ma prima del Giro d’Italia la squadra fallì e mi ritrovai a spasso”.

Nel 1978 passò alla Gis Gelati: “In squadra c’era Marino Basso, bravissimo, in salita si risparmiava per conservare energie per le volate, allora si attaccava ai miei pantaloncini, ma così forte da strapparmeli. E c’era Franco Bitossi, bravissimo, non era più ‘Cuore matto’, e non c’era più da aspettarlo quando si fermava, in crisi, ai bordi della strada. E c’era Tino Conti, bravissimo. E finalmente il Giro d’Italia. Con Bitossi ritirato e Basso squalificato, ebbi via libera. Andai in fuga, mi sembra di ricordare, la terzultima tappa, alpina, da Mezzolombardo a Sarezzo. Centocinquanta chilometri di fuga. Eravamo in due, ma solo io tiravo, perché Franco Cribiori, direttore sportivo di Stefano D’Arcangelo, gli aveva ordinato di non farlo. Però ai traguardi volanti D’Arcangelo faceva la volata per vincerli. Eh no, quello no. Vinsi i traguardi volanti, ma fummo ripresi dal gruppo”. Quel Giro lo concluse al cinquantottesimo posto, a due ore, due minuti e 12 secondi dal vincitore, il belga Johan De Muynck, che alla media (del vincitore) di oltre 35 all’ora, significa un distacco di 150 chilometri.

Fine anno, fine carriera: “Ma amavo la bici più di me stesso. Continuai a correre da amatore, vincevo anche senza allenarmi. E cominciai a dirigere squadre, prima i ragazzi, fra cui Danilo Di Luca e Moreno Di Biase, poi le ragazze, il Team Di Federico. Ancora, adesso, sempre. Con mio figlio Edoardo e con la sua compagna Silvia Trovellesi. Insegno prima a saper perdere, e poi, con gli allenamenti giusti e l’alimentazione giusta, a parole e computer, con internet e telefonini, a cercare di vincere. Perché la bici è la vita. Ho 70 anni, ma dentro è come se ne avessi 20. Lo stesso spirito di prima, anzi, più di prima”.