Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

Il Foglio sportivo

I trionfi olimpici dello sport italiano nell'Italia senza sport

Marco Pastonesi

Il paradosso del successo a Tokyo 2020 di un paese nel quale lo sport resiste soprattutto grazie ai volontari e al volontariato

Tokyo 2020, l’Olimpiade più azzurra di sempre. Quaranta medaglie (quattro più dei Giochi di Roma 1960, anche se a Tokyo le competizioni erano 339 in 33 sport, a Roma meno della metà, 150 in 19 sport): 24 maschili, 15 femminili e una mista, con 10 ori, 10 argenti e 20 bronzi (a Roma 13, 10 e 13), decimo posto nel medagliere (a Roma il terzo, stavolta a pari ori con Paesi Bassi, Francia e Germania, con un maggior numero di medaglie, ma con meno argenti). Almeno una medaglia in ciascun giorno olimpico. Almeno una medaglia in 19 differenti discipline (17 ad Atene 2004). E nella storia, nella memoria, ancora nei brividi e nelle lacrime, un italiano l’uomo che corre più veloce (Marcell Jacobs) e un italiano l’uomo che salta più in alto (Gianmarco Tamberi). Senza dimenticare 14 quarti posti.

Italia atletica e ciclistica, Italia canottiera e canoista, Italia lottatrice e sollevatrice, Italia ginnica e nautica? Italia sportiva? No: la solita Italia, geniale ed eccellente, valorosa e combattente. L’Italia dei miracoli all’italiana. Perché lo sport, in Italia, se esiste, resiste solo per i volontari e il volontariato, per la passione e l’amore, per la voglia. Lo sport, in Italia, è ancora pratica e attività, religione e filosofia, stile e comportamento, educazione e insomma cultura trascurata, ignorata, dimenticata. A cominciare dalla scuola.

 

I dati non sono recenti, ma i sociologi si affrettano a precisare che la situazione, dopo la pandemia, è peggiorata. L’Istituto superiore di sanità, in un convegno del novembre 2018, denunciava la sedentarietà dei bambini: “Il 23,5 per cento dei bambini svolge giochi di movimento non più di un giorno a settimana, il 33,8 per cento svolge attività fisica strutturata non più di un giorno a settimana”, “Solo circa un bambino su quattro si reca a scuola a piedi o in bicicletta”, con gravi ripercussioni sulla salute, sull’apprendimento, sulla capacità di attenzione, sulla qualità della coordinazione. Tutto drammaticamente aggravato dalla mancanza di un insegnante di educazione fisica nella scuola primaria: cioè, quel poco, pochissimo o niente è gestito dagli insegnanti delle altre materie. Due le ore settimanali nella scuola media (tre se il collegio dei docenti approva la richiesta del “potenziamento” di un’ora), due le ore settimanali nelle scuole superiori. Con i pregiudizi consolidati da sempre – lo sport come perdita di tempo, come via di fuga – anche da parte degli stessi studenti.

Secondo una ricerca dell’impresa sociale “Con i bambini” e dell’istituto Openpolis, “quasi un minore su cinque non fa sport. Per il 30 per cento circa dei bambini dai sei ai 10 anni la causa è la condizione economica del nucleo familiare. Prima della pandemia, i minori praticavano prevalentemente sport in spazi chiusi (il 70 per cento dei praticanti adolescenti e oltre l’84 dei giovanissimi), meno di un giovane su quattro faceva sport in spazi all’aperto non attrezzati, contro il 41,9 per cento dell’intera popolazione”. In particolare, “nel 2019, quindi già prima delle chiusure causate dal Covid-19, quasi un giovane su cinque era sedentario: oltre il 18 per cento, tra i bambini di 6-10 anni e gli adolescenti di 15-17 anni, quasi il 16 per cento nella fascia 11-14 anni e oltre il 40 tra i più piccoli (3-5 anni)”. Fra i principali motivi: la mancanza, la fatiscenza, il degrado degli impianti.

 

L’ha dimostrato anche la sberluccicante Tokyo 2020. Il quartetto dell’inseguimento su pista ha vinto l’oro allenandosi a singhiozzo nell’unico velodromo coperto esistente in Italia (a Montichiari, nel Bresciano), che a metà ottobre sarà chiuso almeno altri quattro mesi perché ci piove dentro. Una palestra (la New Marzial a Mesagne, nel Brindisino) è stata capace di regalarci due ori, quello di Carlo Molfetta a Londra 2012 e quello di Vito Dell’Aquila a Tokyo 2020, in una specialità – il taekwondo – non propriamente mediterranea. Le officine degli atleti sono minuscole oasi, come Jesi per la scherma. I tecnici, pur con tutti i titoli federali, non sono pagati, così smettono o allenano solo due o tre punte. La sopravvivenza economica degli olimpici è garantita dal tesseramento nei gruppi sportivi militari. E il Coni è una fabbrica di medaglie, cura i vertici, non la base.
 

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