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il foglio sportivo

La footballpolitik no, grazie

Roberto Perrone

Il moralismo un po’ ipocrita di chi pretende dagli sportivi gesti di coraggio politico a senso unico

Non ci è bastato il rockpolitik di Adriano Celentano, ora siamo alle prese con il footballpolitik turco. Sappiamo bene che il calcio è la prosecuzione della politica con un pallone, ma all’apertura del circo si ripresenta l’ulcera. L’ultimo caso riguarda i calciatori pro Erdogan. Non sosteniamo certo il despota di Ankara, ci mancherebbe. Piuttosto questo è un piccolo trattatello su ipocrisia, pusillanimità, scandalo e riprovazione a senso unico, cioè quando il messaggio non coincide con la nostra ide(ologi)a. Se lo sportivo di turno propaganda qualcosa che condividiamo, allora todos caballeros. Smith e Carlos con il pugno chiuso a Messico ’68 sì, il saluto militare dei turchi no. Dice: ah, ma sono due cose diverse. No, è la stessa, l’uso dello sport per altri fini. Se i calciatori turchi avessero esposto lo striscione “W i curdi” ora sarebbero nostri eroi come il cestista dei Bolton Celtics Enes Kanter e l’ex attaccante di Inter e Torino Hakan Sukur, fieri oppositori di Erdogan. I giocatori turchi, non si sa quanto convinti o costretti – tutti tengono famiglia – hanno usato il calcio come cassa di risonanza. Lo stesso ha fatto chi ha chiesto all’Uefa di sanzionare la Turchia spostando la finale di Champions League da Istanbul. Parentesi. Le sanzioni sono il salvacoscienza dell’occidente, dall’Italia fascista all’Iraq di Saddam fino alla Russia di Putin. Non servono a una cippa. Si tolga pure l’evento più importante del calcio europeo alla metropoli turca, ma diffidate di quelli che chiedono sanzioni, come cantava De André, a proposito dei poeti: “Ogni volta che parlano è una truffa”.

 

Quando il calcio diventa footballpolitik, oltre a ipocrisia e moralismo si scatena il “coraggismo”. Giusto ripescare la storia di Bruno Neri, centrocampista di Fiorentina e Torino che non fece il saluto fascista nel 1931 all’inaugurazione dello stadio di Firenze e poi fu ucciso combattendo da partigiano. O quella di Matthias “Cartavelina” Sindelar, leggendario centravanti austriaco antinazista, morto con la moglie in un incidente domestico che forse non era un incidente. Esistono gli eroi, gli oppositori dei regimi ed è giusto conservare la loro memoria e sottolineare la loro diversità dalla maggioranza prona ai tiranni. Però tanti osservatori sottintendono “anche noi avremmo fatto lo stesso” e pure “voi dovevate fare lo stesso”. Sì, facile scriverlo con il culo al caldo.

 

Il St. Pauli, club di Zweite Liga, del quartiere del divertimento (in tutti i sensi) di Amburgo, da dove partirono i Beatles, ha licenziato Cenk Sahin: il giocatore turco aveva pubblicato post pro Erdogan. Mesut Özil (Arsenal) è più amico di Erdogan di Sahin, il capo gli ha fatto pure da testimone di nozze, ma non l’ha licenziato nessuno. Va bene lo sdegno, ma prima facciamo due conti. E vogliamo parlare del “processo ai like” in cui sono incappati Gundogan ed Emre Can, colpevoli di aver messo mi piace alla foto della Nazionale turca militarizzata?

 

La verità è che bisognerebbe lasciare lo sport fuori da tutto questo. Usare lo sport per un fine politico non giova né allo sport, né alla politica. Non è romanticismo, è realismo. Certo, non possiamo fermare partiti e regimi che hanno sfruttato i grandi eventi per i loro scopi. Dalla Germania nazista con l’Olimpiade 1936 all’Argentina golpista del Mundial 1978, attraverso la strage degli israeliani a Monaco ’72 da parte dei palestinesi, fino alla Cina del capitalismo di stato e dei diritti umani traballanti (eufemismo) dei Giochi 2008, lo sport è stato asservito al messaggio esterno. Però, se tutti questi non li possiamo fermare, almeno evitiamo di essere noi a piegare calcio e sport ai nostri scopi. Nel 2008, alla vigilia dell’Olimpiade di Pechino, qualcuno che non seguiva RaiStoria con Paolo Mieli, scoprì che il Tibet era stato invaso dalla Cina e che il Dalai Lama viveva in esilio. Dal tramestio pareva che l’occupazione fosse avvenuta il mese prima e non nel 1950. Politici, intellettuali, movimenti chiesero agli atleti gesti di boicottaggio, di protesta, di dissociazione. Passata l’Olimpiade, a occuparsi del Tibet è rimasto solo Richard Gere, tra una polemica con Salvini e l’altra. E la storia delle donne arabe e della finale di Supercoppa italiana Juventus-Milan a Gedda? Per quindici giorni siamo stati solidali, partecipi, sostenitori delle donne arabe e dei loro diritti. Abbiamo chiesto la cancellazione della partita (pure lì), poi abbiamo inviato uno stuolo di giornaliste a descrivere la condizione femminile in Arabia. Dopo la partita, abbiamo fatto i bagagli e ciao. Notizie delle donne arabe?

 

Insomma non stiamo con i giocatori turchi, ma neanche con i manipoli di moralisti ipocriti una tantum. Ultim’ora. L’Ac Milan ha chiesto che, con una sanzione retrodata, non solo quella del 2020 ma tutte le finali di coppa giocate in Turchia vengano cancellate e rigiocate. Compresa quella del 2005 persa dai rossoneri in modo rocambolesco con il Liverpool. Con le squadre di allora, non quelle attuali, ça va sans dire.

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