Roberto Palpacelli e il suo tennis tra bisce, pere e redenzioni

Aveva il talento dei grandi, tanto da conquistare Panatta e Bertolucci. Poteva essere il più forte di tutti, è rimasto il Palpa. Andate e ritorni di una vita al limite

Marco Pastonesi

A 16 anni è invitato al centro federale di tennis di Riano, due giorni di raduno, un provino. Adriano Panatta e Paolo Bertolucci ne rimangono conquistati. Gli propongono tennis la mattina, atletica il pomeriggio, dormire ai Parioli e weekend a casa, tranne quando ci sono i tornei. Lui li annienta: “Io, in questo lager, non ci voglio passare un giorno di più”.

 

Ma il postino suona sempre due volte. Qualche mese più tardi viene convocato fra gli azzurri under 16 per la Coppa Europa a Sciacca. La sera ai compagni insegna la “passatella”, un gioco a base di carte e vino: svaligiano i frigobar, spazzolano tutte le bottigliette di rum e whisky, si ubriacano fradici, fanno baldoria con un gruppetto di ragazze al seguito della squadra svedese, e già che ci sono spaccano porta, tavolo, sedie, bicchieri.

 

Fine della prima storia: talento, fenomeno, campione. E inizio della seconda storia: canne, sniffi, pere. Dai cancelli del cielo al profondo degli abissi. Dalla soglia del paradiso al forno dell’inferno. Dal suono del silenzio alla musica del diavolo. Ma il biglietto non era di sola andata. Ce ne sarebbero stati tanti, di biglietti, e tutti di andata e ritorno. Per il destino, per la sorte, per la natura – un fisico capace di iniettarsi, ingurgitare e resistere a quasi tutto -, per il tennis.

 

Se non ci fosse stato il tennis – una pallina che può diventare tragica ma anche magica, liturgica, taumaturgica –, sarebbe stato un più o meno lungo addio. Invece è stato il Palpa, il più forte di tutti.

 

Roberto Palpacelli, il Palpa. Adesso è un libro (“Il Palpa”, scritto con Federico Ferrero per Rizzoli, 222 pagine, 18 euro), che è confessione, liberazione, anche dichiarazione di amore, senza compromessi e senza sconti, sfrenata come sono stati questi 49 anni tra dritti e rovesci, i rovesci anche di un’esistenza spremuta, sbattuta, stracciata, eppure appesa, sospesa, ripresa ogni volta con una smorzata, con una volée, con una biscia, il suo colpo preferito, poco ortodosso e sempre criticato, “una rasoiata di dritto, giocata da fondocampo, che lì per lì sembrava essere una palla corta, invece partiva secca dall’incordatura con il taglio dall’alto verso il basso e moriva dopo il rimbalzo, facendo impazzire gli avversari”.

 

Da piccolo lo chiamano Virgola: “Sottopeso e bassotto”. Sa trasformarsi in Punto Esclamativo: “Non appena veniva punzecchiato, però, si imbizzarriva, talora in maniera sproporzionata”. A casa: scaraventando un carrello della spesa sulla strada o lanciando biglie di legno per ammaccare le auto parcheggiate. E a scuola: “Il preside non fu in grado di trattenere la gioia quando la famiglia lo informò del cambio di residenza. Promise di promuoverlo, a patto che i genitori giurassero di non farglielo mai più vedere”. I genitori, appunto: il papà Cecio, calciatore di professione, tennista di piacere, impiegato in banca di mestiere, e la mamma Franca, a badare a due figlie e a lui, una spina nel cuore, un cazzotto nel fianco, un genio in campo.

  

Perché il Palpa, racchetta in mano (mancino, come John McEnroe, un altro genio, ma meno sregolatezza), ha sempre un colpo in più. Come quella volta che, da under 16, siccome sta vincendo troppo facilmente contro una promessa del tennis italiano, il genovese Massimo Ardinghi, e “la cosa non gli garbava, tra l’incredulità e la disperazione dei dirigenti del circolo, prese a colpire gli smash col manico. Non uno, tutti. Improvvisamente disinteressato al risultato, continuò imperterrito a giocare la sua partita nella partita, manico contro pallina, finché non la perse. Se non lo cacciarono dal circolo fu solo perché non si potevano permettere di lasciarsi scappare un talento simile”.

 

A fregarlo, il Palpa, non è il rettangolo di gioco, ma il cerchio di una fontana, una rotonda e i “rotonderos”, lì, nella sua San Benedetto del Tronto, dove comincia il lungomare. Picchiatori, spacciatori, fumatori, bevitori. E i tifosi sbandati della Sambenedettese. Il peggio del peggio. Vite incendiate, bruciate, incenerite. All’inizio alcolici e sigarette. Poi una canna via l’altra. Dentro, una irrequietudine, una frenesia, una febbre per cui mai accontentarsi, mai frenare, mai rinunciare. Tant’è che, poi, “dissi che volevo provare qualcosa, così, senza preamboli: un tipo, tranquillo e gentile, mi portò ai bagni pubblici e mi fece sniffare dell’eroina. Fu il mio primo tiro: una sensazione fantastica”. Fregato. “Dopo un anno di tiri, avevo fatto un altro passaggio di categoria. Sniffare l’eroina non mi bastava più. La tecnica mi era chiara e feci tutto da solo, a casa di uno dei miei compari: bustina, cucchiaino di acqua calda, accendino Bic, siringa monouso. Mentre fissavo la fiamma e attendevo il momento giusto, non avevo paura, pensavo solo all’obiettivo”. Pronto alla botta. Al cervello.

  

Anni di alterazione, metamorfosi, dissociazione. Viaggi di andata e ritorno. E il ritorno grazie al tennis. Come quando lo ingaggiano in un centro di Bologna, gli fanno firmare un contratto di 11 anni, blindato fra allenamenti mattina e pomeriggio, tanto da cavargli il desiderio della trasgressione, finché lo iscrivono a tre tornei in India e lì, da solo, si disfa, 14 chili persi in due settimane, quattromila dollari dilapidati in “brown sugar”, così pura e irresistibile da costringerlo, al ritorno in Italia, a tornare dai “rotonderos” e farsi ogni giorno di cinque grammi di eroina tagliata per sentire un minimo di effetto. Come quando va a giocare un paio di tornei in Istria, invece nasconde 10 grammi di eroina in una scarpa come scorta per la settimana, e poi molla tutto, spreca tutto, e torna a casa a pezzi in autostop. Come quando viene inserito nella compagnia atleti a Napoli, corrompe un maresciallo, già corrotto di suo, e in cambio di tute e completini da tennis ha libero accesso alla caserma, con il solito accompagnamento di alcolici e, previo rifornimento a Forcella, anche di bustine. Come quando sprofonda in una crisi di astinenza e riesce a convincere il padre ad assisterlo mentre si inietta una dose.

  

Tra comunità e circoli, fughe e sotterfugi, promesse e menzogne, notti sotto le palme e giorni in rianimazione, la storia del Palpa gode però di un lieto fine: ha una compagna, ha un figlio, ha una mamma anziana e due sorelle con i loro problemi che vorrebbe finalmente aiutare e non far disperare, ha un lavoro – maestro di tennis –, ha orari e responsabilità, ha un equilibrio, e adesso ha anche questo libro, crudo, onesto, diretto, travolgente, tristissimo eppure a lieto fine. Sta lontano da tutto quello che lo ha devastato. Gli rimangono i due pacchetti di sigarette al giorno, e succede che a portarglieli sia proprio sua mamma, cosa vuoi che siano tabacco e nicotina dopo tutti i veleni sparati nelle vene. E se un giorno – lunedì, mercoledì, venerdì, qualche volta il sabato mattina – passate dai campi da tennis vicini alla stazione ferroviaria di San Benedetto del Tronto, quelli del Dopolavoro, provate a curiosare. L’Agassi italiano, lì dentro, insegna dritti e rovesci. Forse anche la biscia.

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