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Il dramma di essere interisti

Michele Brambilla

Psicopatologia del tifoso nerazzurro, tremendamente unico. Il caso Icardi non poteva che succedere qui

Io sono interista perché nella vita qualcosa deve pur andarti storto. Sono stato fortunato (guardando le categorie dell’oroscopo, cioè tutto ciò che dovrebbe far bella o brutta un’esistenza) in amore, lavoro e finora – toccando tutto quello che si può toccare – anche nella salute. È chiaro che gli dèi dovevano pur infliggermi qualche sofferenza. Ciascuno è tenuto a portare una croce. La mia croce è l’Inter.

 

La psicopatologia dell’interista sfugge a qualsiasi classificazione dei manuali clinici. Perché non è il gusto di soffrire, che ci fa interisti. Quello ce l’hanno, ad esempio, i tifosi del Toro. Il torinista è, intendiamoci bene, una nobile figura. Egli non sale mai sul carro dei vincitori, ma su quello dei vinti. Il torinista è uno che, quand’era bambino e si giocava a soldatini, non sceglieva i cowboy ma gli indiani; non sceglieva le giacche azzurre dei nordisti ma quelle grigie dei sudisti. Diventato adulto, è stato di sinistra quando c’era il fascismo, fascista dopo il 25 aprile, craxiano dopo il ciclone di Mani Pulite, e adesso probabilmente oscilla tra Martina e Zingaretti. Il torinista sa che il suo destino è non tanto il soffrire, quanto il crogiolarsi nella sofferenza. Quando ha avuto la squadra più forte del mondo, essa è precipitata dal cielo, e siccome il destino lancia sempre dei segnali, il pilota dell’aereo caduto il 4 maggio 1949 si chiamava Gigi Meroni, come la “Farfalla granata” falciata da un’automobile in corso Re Umberto a Torino nello splendore dei suoi anni, il 15 ottobre del 1967, una domenica sera.

 

No, la rogna dell’interista è un’altra. Forse quella di rimpiangere sempre un passato glorioso, Sarti-Burgnich-Facchetti eccetera? Ma no, in quello son specialisti i genoani, la cui libidine è rammentare gli scudetti vinti quando il campionato aveva il girone di andata la mattina e quello di ritorno il pomeriggio, e c’era ancora Francesco Giuseppe con il suo impero. E non è neppure, quella dell’interista, la sofferenza del milanista, che ha avuto sì una sfilza di presidenti in galera, che è stato sì in B due volte – la prima pagando, la seconda gratis – che è riuscito sì nell’impresa mai riuscita a nessuno di perdere una finale di Champions dopo aver chiuso il primo tempo sul 3-0. Però il milanista, dopo esser caduto, risorge. E vince, ahimè se vince: sette titoli europei, che valgono più degli scudetti della Juve, che non si ricorda nemmeno quanti siano, se 30 oppure 32, 34 oppure 36, 38 oppure 40, o forse zero oppure due, tanto non valgono nulla, perché la Juve non ha tifosi, ha solo seguaci cui interessa solo di vincere, non importa come. Se il bambino torinista era quello che a soldatini giocava con i vinti, quello della Juve giocava con le macchinine e al bambino torinista diceva “la macchina del mio papà è più bella di quella del tuo, pappappero”. Infatti non si ha notizia, fra i tifosi eccellenti della Juve, di particolari talenti. Perché solo chi perde impara e sviluppa un genio artistico, spesso comico. Così l’Inter ha ad esempio Aldo Giovanni e Giacomo, Bertolino, Paolo Rossi, Fiorello, Gino e Michele, Celentano, Vecchioni, Michele Serra. Il milanista, che ha comunque le radici popolari dei casciavìt (copyright Gianni Brera), sa egli pure che cos’è la sofferenza e può schierare Jannacci, Abatantuono, Bisio, Teocoli, Cochi e Renato. Ma gli juventini? Anche a pensarci su una settimana, vengono in mente Pippo Baudo e Giletti. Bravissimi neh, per carità. Però.

 

E comunque. La psicopatologia del tifoso interista è unica perché non è né quella di chi gode spesso, né quella di chi non gode mai. È il coito interrotto, il destino del tifoso interista. Il quale arriva lì, a un passo dal vincere, ma poi invece no. Così compra Bergkamp che dicono tutti che è il nuovo Cruijff, e invece è il nuovo Vanello (qualcuno se lo ricorda? Era un numero dieci che doveva sostituire Suárez, finì al Bologna dove lo ribattezzarono Vanullo). Così compra Ronaldo che dicono tutti che è il più forte del mondo e in effetti lo è, ma a un certo punto gli si gira il ginocchio dall’altra parte e addio. Siamo andati avanti decenni, noi poveri interisti, a vincere lo scudetto d’estate a suon di acquisti che si sono rivelati, quando andava bene, buoni per un piazzamento in zona Uefa. Ecco, perché un po’ quello è il nostro destino: noi non andiamo mai in B, difficilmente siamo nella zona bassa della classifica, però neanche in quella alta-alta. Siamo quarti, quinti, sesti, qualche volta terzi. Se arriviamo secondi ci arriviamo con le balle girate perché c’è sempre qualche arbitro che da bambino diceva che la macchina del suo papà era la più bella.

 

E così eccoci qua ai giorni nostri, che abbiamo un centravanti formidabile ma con una moglie purtroppo altrettanto formidabile: e anche adesso che abbiamo un grande amministratore delegato, siamo qui con i soliti litigi; le polemiche; la Juve che ci vuole fregare i nostri campioni. Il caso Icardi-Wanda-Marotta-Paratici poteva capitare da un’altra parte? No, poteva capitare solo all’Inter. Mai una gioia.

 

Perfino quando abbiamo vinto il Triplete ci siam guastati da soli la festa, con Mourinho che se ne va sull’auto del Real Madrid e il Principe Milito che dopo la doppietta dice mah, non so se resto. Ecco, per dire la psicopatologia dell’interista: io quella sera, quel 22 maggio 2010, ero a Madrid, al Bernabéu, imbottito di Xanax. Vincemmo, ma ancora oggi non riesco a crederci, che vincemmo. E non vado mai a vedere l’albo d’oro, nel terrore di scoprire che fu solo un sogno.

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