Tifosi del Bari (foto LaPresse)

Lamento del tifoso (barese) fallito

Beppe Di Corrado

Tre milioni di euro condannano il Bari. Una coda di vergogna che si trascina da quasi dieci anni

E’ il numero che crea l’ossessione: tre milioni di euro. Centodieci anni di storia finiscono per l’equivalente di due grandi incassi, o più semplicemente il cartellino di un paio di giocatori di B. Come fa un club che ha un patrimonio calciatori stimato in 15 milioni di euro a non riuscire a ricapitalizzarne un quinto? E’ buonsenso prima che aritmetica. Diranno, anzi dicono, che il problema era il debito: 18 milioni o qualcosa del genere. Intanto, però, il fallimento è arrivato per quei tre. Perché bastavano quelli al Bari per iscriversi al campionato di serie B. Tutto il resto sarebbe venuto dopo. Allora perché? Perché? Perché?

 

Adesso ci vogliono risposte semplici. Voglio una spiegazione della mia sparizione: non è in gioco soltanto una squadra, ma l’identità personale e collettiva di chi ne è tifoso. Voglio sapere il senso del suo vuoto. C’è un colpevole, ovvio. Chi non ha saputo gestire il club e nel frattempo non ha chiesto aiuto, in un atteggiamento di superbia che spesso è figlia dell’idea che l’aiuto equivalga al fallimento personale. E quindi meglio il fallimento di tutti. Perché le squadre di calcio sono beni pubblici gestiti da privati. Legittimamente. E con il giusto, sacrosanto diritto di trarne un profitto. Però quel profitto si basa sull’affetto e sul denaro di un pubblico che è proprietario dell’emozione che sta alla base di un circuito economico-sociale senza eguali.

 

Il presidente ci mette i soldi e i soldi possono finire, ma prima che ciò accada va tutelato un patrimonio che è economicamente incalcolabile

Il calcio è così: è la responsabilità di una moltitudine spesso gestita dall’irresponsabilità di un individuo. Il presidente ci mette i soldi, giusto. I soldi possono finire, ma prima che ciò accada va tutelato un patrimonio che è economicamente incalcolabile. E nel calcio di oggi una squadra dell’ottava città italiana, che gioca in serie B, non può fallire per tre milioni. Questa storia lascia sospetti, lascia l’idea di un’avventura che aveva già contemplato quest’ipotesi: proviamoci, se va bene ok, altrimenti lasciamo fallire il club. Sì, ma perché? E’ questa la domanda. E perché sempre a Bari?

 

Pare una condanna continua, una coda di vergogne che si trascinano da quasi dieci anni, quando ci svegliammo scoprendo che avevamo un gruppo di giocatori s’erano venduti l’anima, oltre che le partite, rovinando il momento più bello per un tifoso del Bari. Eravamo appena tornati in A, con la meraviglia di un campionato di B vinto il 9 maggio 2009 con Antonio Conte in panchina. Era un esperimento, diventò il calcio più bello mai visto nella storia di un club che aveva appena compiuto 100 anni. Non si può capire: un leccese che riporta il Bari in A, partendo di fatto da una vittoria nella sua Lecce. Sono cose piccole, per chi non sa che cosa sia quella rivalità. Grandi per chi la conosce, per chi l’ha vissuta.

 

Poi Conte lasciò, in un pomeriggio estivo, dopo che il suo rinnovo era stato ostentato per fini elettorali da Antonio Matarrese: scelse l’Atalanta, perché aspettava la Juve. Fu un trauma, ma arrivò Ventura e prima di lui Bonucci: il Bari chiuse la A 2009-10 al decimo posto, con 50 punti, il risultato più importante della sua vita. L’anno dopo il disastro: una quindicina di partite vendute, avremmo saputo poi, con Ventura che solo qualche mese fa ha raccontato che aveva capito qualcosa. All’epoca tacque. Nel suo silenzio e negli affari fatti da calciatori infami e tifosi che chiedevano di giocare a perdere per lucrarci, Bari sprofondò nella cloaca dell’immoralità più spinta. Fu B, penalizzazioni, difficoltà, stipendi troppo alti, conti troppo alti anche loro, il rosso fisso sui conti, gli incassi a zero, un’umiliazione che nel 2014 portò all’ingresso in amministrazione controllata.

 

Avrebbe dovuto essere quello il momento del fallimento, invece fu l’inizio della Meravigliosa stagione fallimentare, raccontata in un film vincitore di premi e portatore di una delicatezza rara nel racconto del mondo del calcio. Fu l’epoca della campagna #salvalabari. Con il LA che sostituì IL. Perché la squadra veniva chiamata così fino agli anni Settanta: ripescato l’articolo e ripescato anche l’orgoglio. Fu una alternanza tra aste per l’acquisizione della società e le vittorie sul campo, con la città che man mano inondava prima lo stadio, poi la stazione all’arrivo dalle trasferte della squadra, poi l’aeroporto, poi le strade. La Bari arrivò ai playoff di B, recuperando contro il mondo, contro gli avversari, contro se stessa. Vinse il primo turno dei playoff, arrivò alle semifinali: uscì senza mai perdere, con un doppio 2-2. Davanti a 60 mila spettatori prima e a 25 mila in piazza poi. Cantavano: “Forza la Bari alè, canto vivo per te, io non mollerò, son biancorosso e mai ti lascerò”.

 

La trasferta di massa è un punto di forza, è l’orgoglio dell’appartenenza da mostrare a chi è numericamente e non solo più forte di te

Lo sento ancora quel coro, dentro, in testa, nel petto. L’ho cantato sempre, negli ultimi quattro anni, a costo di umiliazioni pubbliche e sfottò continui. Perché chi tifa le grandi non capisce noi tifosi delle piccole. Snobbati in dialoghi così: per che squadra tifi? “Bari”. Ok, Bari, e poi? L’alternativa è: ok Bari, ma di serie A?: “Bari, solo Bari”. L’altro a quel punto fa due cose: o fa finta di niente, pensando che ostento paraculaggine, o appunto mi prende in giro. Allora sale la rabbia, ormai pienamente controllata da anni di esperienza. Perché c’è una cosa che il tifoso di una piccola detesta più delle altre squadre: l’idea che ci siano altri che si spacciano per tifosi della sua squadra, ma che in realtà la usano per mascherarne un’altra. Grande, ovviamente.

 

Doppiofedisti, che non sono diversamente tifosi, la verità è che non sono per niente tifosi. La realtà ha detto invece il contrario e cioè che tanti monofedisti, cioè quelli veri, autentici, sani vanno via: lasciano la città, ma non la squadra. E questo rende ancora più odiosi quelli che dicono di essere sia di una piccola, sia di una grande. Perché il problema non è il barese che tifa la Juve, il Milan, o l’Inter: scelta sua. Il problema è chi non sceglie, chi mente a sé e agli altri. Il calcio non prevede concessioni, si sta con uno o con l’altro. E il paradosso di chi tifa una grande è che esposto al rischio della sofferenza quanto e come me, ma s’illude di essere diverso. Ne fa una questione statistica, come se perdere 10 partite di seguito sia peggio che perderne una sola, ma magari quella decisiva.

 

Un tifoso è un tifoso, punto. Ma è evidente che chi tifa una piccola entrerà sempre in conflitto con chi tifa una grande. L’irrazionalità è comune, la sua declinazione è opposta. Tifare una piccola significa mettere in conto l’idea di retrocedere. Anche in questo caso il dramma vero non è poi quello. In fondo retrocedere significa soltanto ricominciare. E’ come con i giocatori del Subbuteo: traballano, barcollano, basculano e si rimettono in piedi; poi se lo scossone è troppo forte vanno giù: retrocedere è così, non è che finisca il gioco, è solo che si complica. Devi prendere il giocatore e rimetterlo al suo posto con le mani. Lo fai e ricominci. La serie B è un dramma, ma non una tragedia: non è la morte, è una malattia. Ti puoi riprendere. Ecco il vero problema, allora: puoi.

 

Perché ciò che ti angustia l’anima, quando retrocedi, è l’incognita: avere la possibilità significa non avere certezze, “puoi” sì, ma non è detto che tu ci riesca. E’ il punto interrogativo della vita sportiva. Un dilemma del quale non vedi la fine. Quanto? Sì, quanto? E’ qui che si gioca tutto, questa è la vera partita: il tempo è più importante dello spazio e del luogo. Questi si accettano: la serie B significa che vai a vedere il Carpi, l’Entella, il Cittadella proprio quando t’eri abituato al Milan, all’Inter, alla Roma, alla Juventus. Però lo accetti: una trasferta a Chiavari può restare nella memoria più di una a Napoli. Possibile e pure affascinante. Però non otto anni di seguito. Perché anche tra i tifosi delle piccole c’è una scala. C’è chi tifa una piccola-grande, chi una piccola-piccola: la differenza sta nell’ambizione di tornare in serie A e nella possibilità statistica e storica che ciò si concretizzi. Ecco perché è il tempo a essere centrale. La durata di questa discesa o permanenza tra i dannati è tutto quello attorno a cui ruota lo stato d’animo di un tifoso di una piccola-grande.

 

La meraviglia di un campionato di B vinto nel 2009 con Antonio Conte in panchina. Era un esperimento, diventò il calcio più bello mai visto qui

Quelli del Bari, quelli del Brescia, quelli del Bologna, quelli del Catania. Una stagione si può: scendi e risali, ti purifichi la coscienza. E’ come una visita a un santuario, oppure come un periodo in una comunità di disintossicazione: ti fa pensare a quello che avevi e che hai perduto. Ti fa soffrire e quindi godere, perché la delusione resta il cardine dell’identità tifa. E’ il confronto costante con l’amarezza, l’attesa di una partita con l’incubo della sconfitta più che col sogno della vittoria. Ci piace soffrire: vale per chi vince o ha vinto come milanisti, interisti, juventini; vale per chi non vincerà mai, come tutti gli altri. Siamo figli di una cultura sportiva che fa della fregatura il suo punto più alto: godiamo più del riscatto da un pensiero negativo, che della felicità di un momento di gloria. Fa esultare di più un rigore fischiato contro, ma sbagliato dall’avversario, di uno fischiato a favore e segnato da te. Questione di aspettative: meglio ribaltare una potenziale sofferenza che assecondare un’ipotetica gioia. Perché sai che alla fine i momenti neri saranno quelli che ti porterai dentro.

 

Il tifoso di una piccola ha parametri di giudizio diversi. Non può guardare solo il campo. Ricorda aneddoti che trascurano il risultato: “Ti ricordi quando abbiamo invaso Roma? Eravamo 11 mila”. La trasferta di massa è un punto di forza, è l’orgoglio dell’appartenenza da mostrare a chi è numericamente e non solo più forte di te. Ti fa giocare sullo stesso piano, almeno sugli spalti. E’ l’idea che se solo avessi una società ricca e dei giocatori strapagati, anche tu potresti essere una grande. Perché “guarda quanti siamo”. Anche qui c’è piccola e piccola. C’è città e città. Ciascuno parla per sé e ovviamente qui si sta parlando di Bari e della Bari. Che ha sempre avuto quella caratteristica: la gente, la folla, l’entusiasmo. Ha gli emigrati che la raggiungono dal nord. Ha uno stadio che si riempie su sollecitazione. Ha anche troppi doppiofedisti, quindi infedeli da espellere al primo giro di tornello. Fuori, perché loro non sanno che cosa significhi la fatica vera di un tifoso: trasmettere ai figli la stessa passione, la difesa di un valore, di un’identità. Però magari vive lontano della città della sua squadra. Però magari ha anche la sua squadra in B. Però magari vive in una città con grandi squadre. Però sa che a scuola i compagni del figlio potrebbero ridere a sentirgli dire, in quella città “straniera”: “Sono tifoso del (o della) Bari”.

 

Un amico ha scritto che tifare per la propria squadra è in fondo tifare per la propria vita. E’ vero, ma non si sa come né perché per il tifoso di una piccola riesce a non essere tutto. Forse la ragione sta nella sofferenza, che non è mai abbastanza: la sconfitta, la retrocessione, il calvario di anni di B, poi le speranze tradite di una risalita, i playoff presi e poi persi. C’è sempre un’occasione per essere tristi. Poi c’è il gradino sotto, questo: fallimento. La fine. La chiusura di un cerchio perverso: nel 2014 l’avevamo messo in conto e non è successo per la congiuntura astrale, perché Gianluca Paparesta aveva avuto una grande idea, aveva raccolto dei soldi, aveva un progetto, ma è naufragato perché a Bari nessuno è straniero, ma tutti vogliono essere padroni: era un all inn pokeristico, passato in fretta da salvataggio ad azzardo. Almeno lui chiese aiuto, solo che in soccorso è arrivato chi poi è diventato l’aguzzino di una città, di una passione, di un’identità. 16 luglio 2018, ore 19: la squadra non c’è più, i giocatori che valevano 15 milioni ed erano la possibile salvezza sono liberi, da patrimonio a nulla in un minuto.

 

Continua quella domanda: perché? E ancora: perché tutto a Bari? Abbiamo visto uno stadio nato come opera d’arte che ha ospitato una finale per il terzo posto dei Mondiali e una finale di Champions diventare diroccato, abbiamo aspettato americani finti, russi devoti a San Nicola, malesi spuntati dal nulla, indiani senza una residenza né un’azienda. Abbiamo affrontato il processo scommesse, un fallimento pilotato, un salvataggio, la meravigliosa stagione fallimentare, il sogno di una nuova società, l’arrivo di questo socio locale che prometteva tutto senza avere niente, quindi il fallimento. Fal-li-men-to. E’ successo tutto qui, il che lascia pensare che non sia un caso, ma che c’erano le basi socio-economico-politiche per essere la calamita di tutti i truffatori e i disastri. Bari levantina, Bari commerciale, in cui c’è sempre uno che ne sa più dell’altro, pronto a ripeterlo anche contro l’evidenza. Una città con grandi ambizioni frustrate, che nel calcio cercava una ragione di vita, pensando di essere più di ciò che era, competendo in una gara senza senso con club più grandi che secondo noi avrebbero duvuto esserci inferiori per un rango che la storia e il pedigree non ci concedevano. Pensavamo di valere l’Europa e siamo falliti due volte in quattro anni, in un silenzio che fa spavento.

 

L’epoca della campagna #salvalabari. Con il LA che sostituì IL, perché la squadra veniva chiamata così fino agli anni 70

Resano idee, restano ricordi. E a quel punto non ti aggrappi neanche agli 11 mila di Roma, ma ti bastano i flash dell’aver visto le stesse persone che si muovevano nelle trasferte al nord: emigrati di non ritorno che si davano appuntamento senza concordarlo in stadi di provincia, come Novara o Vercelli. Quel coro della meravigliosa stagione fallimentare è diventato molti altri: “Da quando sono al mondo, Io tifo per te; di tempo ne passato ma sono innamorato sempre di più. La senti questa voce? Chi canta è il mio cuore: la Bari è il mio amore, non te lo so spiegare, tanto non capirai, tanto non capirai”. Tanto non capirai è uno slogan, è uno stile di vita, è la spiegazione di tutto quello scritto prima.

 

Tifare una squadra come la Bari è un atto individuale, consapevole, che prescinde dalla categoria. Tanto non capirai, appunto. Perché non capisce nessuno, se non i tuoi simili. Ora sarà serie D. Lì finiremo, salvo ripescaggi e magheggi auspicabili dal punto di vista dei tifoso, ma ora non pervenuti nella considerazione collettiva e nella consolazione post lutto. Ora c’è quella sensazione di inutilità che ti porta a rivedere ciò che è stato: negli ultimi 30 anni abbiamo visto un Bari con Boban, Platt e Jarni, poi il fenomeno Protti, unico capocannoniere di A in una squadra retrocessa, poi la crescita di Nicola Ventola, l’allevamento di Gianluca Zambrotta, la creazione di Antonio Cassano, l’investimento su Bonucci. A Bari è nato il calcio di Conte. A Bari siamo passati dai 63 paganti di un celeberrimo Bari-Cittadella, alla media più alta di spettatori di B degli ultimi quattro anni. A Bari abbiamo visto tutto: il bello e l’orribile. Ma vedevamo qualcosa, sempre. Oggi c’è un burrone, l’impotenza. E ora? Dove andiamo? Che facciamo? Chi siamo? Qualcuno metterà dei soldi, sì ma per cosa? E quale sarà il progetto? Chiedi perché non hai risposte. E infatti io non so niente di tutto questo e non è neanche importante, adesso. Qualunque sia il domani, sento solo l’ultima strofa di quella canzone: “Canto, vivo per te… io non mollerò… Son biancorosso e mai ti lascerò”.