Foto LaPresse

facce da mondiali

Il limite che non c'è di Cristian Pavón

Giovanni Battistuzzi

Il numero 22 dell'Argentina è uno che ha sempre avuto le idee chiare e un solo obbiettivo: diventare il migliore. Chi è l'ala del Boca, una "vittima dei tempi, che sulla fascia si è ritrovato perché lì c'era spazio"

Le idee chiare ce le ha sempre avute. Forse pure troppo. Aveva dodici anni, veniva da Anisacate, paesino di poco più di duemila anime a una trentina di chilometri da Cordoba, giocava nelle giovanili del Club Atlético Talleres e aveva da poco fatto un gran gol. Stop, finta di corpo, scatto, tiro a incrociare, portiere battuto. Gli chiesero come avesse giocato. Rispose: "Da Messi". Gli chiesero se intendeva dire come nessuno del Talleres e lui, Cristian Pavón, disse, "no, proprio come Messi". Lionel Messi aveva 21 anni, giocava al Barcellona e aveva appena convinto la dirigenza blaugrana a cedere Ronaldinho per lasciargli più spazio.

 

 

Le idee chiare ce le ha sempre avute. E per questo nel 2014 dal Talleres, ultima della seconda divisione argentina e retrocessa, chiese e ottenne la cessione al Colón: le due squadre si misero d'accordo per un prestito con diritto di riscatto. "Per diventare un grande calciatore si deve giocare in una squadra competitiva", disse. E dopo il primo gol con la nuova squadra, il 9 settembre, avvisò tutti: "Il Colón è solo una tappa. La mia dimensione è quella di competere per vincere la Primera División". D'altra parte il biglietto da visita era di quelli che colpiscono: scatto, finta a rientrare, destro sotto l'incrocio dei pali. Un “goool” di quasi mezzo minuto in telecronaca.

 

 

In Argentina funziona così: più "o" mette insieme il telecronista più bello è il gol. Raccontano che una rete di Kempes in un Rosario Central-River Plate generò un “goool” lungo un minuto e venti. Non ci sono prove che però lo confermino.

 

Quella rete, assieme alle altre quattro che la seguirono attirarono l'interesse di mezza serie A argentina. Arrivò per primo il Boca Junior che non batté ciglio nel pagare il milione e trecentomila euro di clausula. Pavón commentò: "In due anni sarò in Nazionale". Mantenne anche in questo caso la promessa.

 

Di lui dicono che "non è uno spaccone, un arrogante, anzi, è uno sempre pronto ad ascoltare". Almeno per Reinaldo Merlo, che lo ha allenato al Colón. "E questa è una grande dote. Per fortuna che poi fa quello che si sente di fare, ossia quello che vuole. L'imprevedibilità è la sua migliore arma". Pavón sa dove vuole arrivare, cioè a conquistare tutto il conquistabile, sa chi vuole essere, cioè il migliore, sa soprattutto che per farlo è inutile aspettare di fare gol, l'importante è dimostrarlo con la palla al piede, entrare il più possibile nelle azioni decisive. Lui è uno che ha scelto di mettere in pratica il mantra dell'allenatore del Boca, Guillermo Barros Schelotto: "In campo non voglio più vedere una squadra che si affida a lanci lunghi di merda". Detto, fatto. Dopo la sconfitta contro il Lanus nella prima giornata del torneo 2016/2017, Pavón recupera palla, supera due uomini volteggiando sul pallone, lancia Carlos Tevez: 1-0. Poi su punizione la mette sotto l'incrocio: 2-0. Tutta la Bombonera in piedi ad applaudire.

 

 

Pavón "è forte, fa la differenza con la sua velocità, è abile con i piedi, sa gestire sia la fase offensiva che quella difensiva, è disponibile a sacrificarsi. È necessario però che migliori alcune cose, lucidare alcuni dettagli. Si tratta di un diamante grezzo", ha detto Humberto Grondona, l'uomo che lo lanciò nelle selezioni giovanili dell'Argentina. E quei dettagli da limare sono essenzialmente la sua tendenza a giocare per il "Deportivo Pavón", ossia la tendenza al solipsismo, che nel suo caso "non è l'abitudine a fare tutto da solo, a non passare mai il pallone", il numero di assist, il maggiore di tutta la Primera División, dimostra l'esatto contrario, "ma il fatto di ricercare la giocata per prendersi gli applausi", scrive Elías Perugino del Gráfico.

 

 

Pavón "non è un'ala", dice Grondona, "è una vittima dei tempi, che sulla fascia si è ritrovato perché lì c'era spazio". Sarebbe un trequartista, "un 10 classico, ma in un mondo che si è dimenticato dei 10, si è dovuto sacrificare". E forse è stata la sua fortuna. Perché uno che sa usare eccellentemente entrambi i piedi, che si esalta nell'uno contro uno, è sulle fasce che trova "il suo territorio di competenza", raccontò Pep Guardiola a Martí Perarnau: "Abbiamo bisogno di questo tipo di giocatori negli ultimi venti metri. Possono creare di tutto e l'allenatore avversario non può ingabbiarlo con la tattica. E' la teoria del caos e controllo, pianifichi tutto al centro e lasci la confusione sugli esterni". Del resto un'ala deve sapere volare. E lui lo sa fare. E non solo in campo. "Il mio limite? Solo il cielo lo sa. Se il destino non si mette in mezzo, sarà bellissimo. Vi farò divertire".