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Più che a Roma, l'ultima tappa del Giro d'Italia sembrava corsa nella Ddr

Giovanni Battistuzzi

Buche ovunque, rattoppi imbarazzanti e corsa neutralizzata. La giunta aveva sei mesi per preparare l'ultimo palcoscenico della corsa rosa, tempo buttato

Roma. Quando nel 2000 il tedesco Steffen Wesemann concluse tra lo stupore generale al nono posto la sua prima Parigi-Roubaix, dopo aver preso un sacco di vento in faccia per proteggere il suo capitano Erik Zabel, gli chiesero dove avesse imparato ad andare così forte sulle pietre. Lui rispose: “Sono cresciuto a Wolmirstedt, nella Ddr, le strade erano un disastro, c’erano buche ovunque, l’asfalto era molto spesso un’illusione”. Poi sorrise: “E’ una gran palestra”. L’Italia si deve augurare che Wesemann avesse ragione. E’ dal 1999 che un italiano non vince a Roubaix, la speranza è che presto Roma possa regalarci un campione per le classiche del nord. Perché non sappiamo come fossero le strade tra gli anni Ottanta e Novanta a Wolmirstedt, ma chi si muove quotidianamente per le vie della Capitale sa benissimo come sono quelle di Roma. E domenica lo hanno scoperto pure i corridori del Giro d’Italia. Hanno impiegato 11,5 chilometri per comprenderlo, quelli necessari per completare la prima tornata del circuito capitolino.

 

Erano passati venti minuti dal via dell’ultima frazione della corsa rosa quando le telecamere hanno inquadrato Elia Viviani, campione olimpico dell’Omnium (specialità del ciclismo su pista), mettersi un dito alla tempia e dire ai suoi compagni di squadra che “questi sono pazzi”. Si riferiva agli organizzatori e ai responsabili della (non) sistemazione del tracciato. I corridori sono andati alla macchina della direzione di corsa, hanno chiesto e ottenuto la neutralizzazione della tappa, ossia di non considerare validi al fine della classifica generale i tempi realizzati.

  

La colpa di tutto ciò, sia chiaro, non è solamente dell’amministrazione romana. Non solo delle buche si sono lamentati i corridori, ma anche di alcuni pericoli gratuiti inseriti dall’organizzazione. Il Campidoglio poteva fare molto, ha fatto poco e quel poco lo ha fatto male. Per un giorno Roma è sembrata Wolmirstedt, la giunta degna di Berlino Est.

  

 

Perché in sei mesi si possono fare molte cose. Anche sistemare una rete viaria indecente, dove crepe, buche, a volte voragini, segnano un po’ ovunque strade e vicoli. In sei mesi si possono fare molte cose, ma forse non a Roma. Perché dal 29 novembre 2017, giorno di presentazione del Giro d’Italia, al 27 maggio 2018, giorno dell’ultima tappa della corsa rosa, tutto è rimasto uguale. Anzi, la situazione è pure peggiorata. Dopo la neve e la gelata di febbraio la pavimentazione della Capitale è ancora rotta in oltre diecimila punti. E il trend è in crescita, o così almeno dicono i dati dell’app “Decoro urbano” che permette di segnalare tutti i casi di degrado, buche incluse. In sei mesi sono stati sistemati circa settecento metri di via Fori Imperiali, ora quasi perfetti come un finale di una grande corsa a tappe prevederebbe. Il resto non è stato pressoché toccato. Qualche rattoppo qua e là che non ha sistemato niente. Perché riempire le buche con un po’ d’asfalto non risolve il problema, paradossalmente lo amplifica creando quei rialzi alla pavimentazione che possono diventare omicidi.

 

Jacques Goddet, ex patron del Tour de France, chiedeva una sola cosa ai sindaci di Parigi prima dell’ultima tappa della Grande Boucle: “Fatemi trovare le strade come fossero un letto appena fatto. L’immagine che resta di Parigi nella mente dei tifosi è quella finale del Tour”. E va bene che il Giro non è il Tour, ma Roma che sembra Wolmirstedt ce la potevamo risparmiare.

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