Il Superbowl delle due Americhe che si sovrappongono

Stefano Pistolini
La stella dei Denver Broncos, Peyton Manning, monumento vivente dell’americanità tradizionale, ha prevalso su Cam Newton, il quarteback dei Carolina Panthers, il 26enne nero e istrione col bernoccolo per lo show business

Il Superbowl numero 50 ha assolto i suoi doveri di megashow globale. Protagonisti di statura assoluta e di caratteristiche contrastanti, cornice ambientale spettacolare, contorno showbiz di livello: mettete Peyton Manning, Cam Newton, San Francisco, una perfetta giornata di sole, i Coldplay e Beyoncè dentro il frullatore e la centrifuga sarà di quelle memorabili. Peccato solo che la partita che ha laureato i Denver Broncos campioni Nfl per questa stagione sia stata una delle più brutte viste quest’anno. Un festival degli errori, un continuo predominio delle difese sugli attacchi, due quarterback tutt’altro che ispirati, ridotti a bersagli poco mobili per gli assalti dei predatori avversari. L’effetto è stato un predominio costante dei Broncos di Manning, la cui linea di incursori difensivi ha funzionato meglio per tutto l’incontro, su una versione edulcorata di quei Carolina Panthers che pure sono stati la migliore squadra della stagione. 24-10 il punteggio finale, col vecchio campione in trionfo (annuncio di ritiro per ora rimandato) e il giovane aspirante a masticare amaro a bordo campo. Il passaggio di testimone aspetterà, mentre questa settimana Peyton Manning verrà immerso in un procedimento di santificazione da far crepare d’invidia qualsiasi candidato in corsa per la Casa Bianca.

 

La narrazione di questo Superbowl comunque è stata superba. Non per il nome delle due squadre coinvolte – una habitué della partita finale, con propensione a perderla, come i Denver Broncos e una franchigia tra le ultime arrivate nella Lega, i Carolina Panthers che giocano a Charlotte. Sono i due rispettivi uomini-simbolo ad aver portato in dote all’incontro il suo intreccio più appassionante. I due quarterback, eroi per due Americhe che si sovrappongono solo in piccola parte. Da un lato Manning, 40 anni tra un mese, pedigree di acciacchi fisici da brividi, prodotto orgoglioso della vecchia America, con natali a New Orleans in una famiglia in cui il football è una religione, trascorsi da ragazzo-prodigio, cittadinanza onoraria a Indianapolis, ai cui Colts fa vincere il loro unico Superbowl regalandogli, pagando di tasca sua, un magnifico ospedale per bambini di cui continua a seguire da vicino lo sviluppo. Contro questo monumento vivente dell’americanità tradizionale (Manning ha finanziato la campagna elettorale di Jeb Bush), il nuovo ragazzo in città, lo sfrontato astro nascente, il 26enne nero Cam Newton, istrione col bernoccolo per lo show business, oltre che ovviamente dotato di un braccio d’oro, capace di spedire per tutta la regular season palloni al laser ai suoi ricevitori, di quelli che ora il vecchio Manning  può solo ricordare. Il tutto in una San Francisco trasformata in parco a tema dell’Nfl e culminato nel nuovissimo stadio di Santa Clara, cittadina della baia il cui sindaco, Jamie Matthews, ha confessato d’essere interessato solo agli introiti commerciali dell’evento, che ha seguito tranquillamente dal megaschermo di casa sua.

 

[**Video_box_2**]Di fronte, l’America giovane e irrequieta di Cam e quella esperta del veterano Payton e dei suoi lucenti valori originali: “Ebony and Ivory” è stato il soprannome più gettonato per la battaglia che infine ha sancito la prevalenza del vecchio sul nuovo, ma che soprattutto ha mostrato una squadra ben organizzata nel distruggere, i Broncos, e nell’avere la meglio su un’altra impietrita dall’emozione per un traguardo raggiunto troppo presto. L’inizio è spettacolare: Steph Curry, il miglior giocatore di pallacanestro del mondo, tifosissimo di Carolina, suona il tamburo che introduce i neroazzurri Panthers. I Broncos irrompono sul campo guidati da un bianco destriero al galoppo. Inno nazionale cantato (bene) da Lady Gaga e fuoco alle polveri, o meglio via alla sciarada delle occasioni mancate. Nel tradizionale show di metà tempo, sul palco salgono i Coldplay, impegnati in una fantasia di adorabili successi, però coreograficamente ben poco adatti alla grandeur dell’evento. Li surclassa rapidamente l’apparizione di una Beyoncé più black pride che mai, che ha canta, balla, ammicca e ridà all’America nera tutto ciò che, per una sera, un quarterback ancora immaturo non ha saputo regalarle.