Lo scorso anno la Liegi-Bastogne-Liegi ha raggiunto le cento edizioni: è la “Doyenne”, la decana, delle classiche del nord

Le Liegi d'Italia

Giovanni Battistuzzi
Gli emigrati nelle miniere delle Ardenne e la pedalata di Preziosi che cambiò loro la vita. Ecco la Liegi-Bastogne-Liegi, la più italiana delle classiche. Gino Bartali la corse solo una volta e rimase stupito dalla quantità di italiani a bordo strada: “Sembrava di correre in casa”

Doyenne”, ossia decana. Basta il soprannome per descrivere cos’è, per gli amanti del ciclismo, la Liegi-Bastogne-Liegi che si corre domani, edizione numero 101. Non c’è nulla di più antico nel calendario World Tour – la serie A del ciclismo mondiale –, poco di più prestigioso. Centoventitré anni di storia, il solito percorso, il solito andirivieni per la Vallonia, da Liegi a Bastogne e ritorno: andata spedita, percorso facile, ritorno complesso, un susseguirsi ininterrotto di salite e discese sino all’arrivo.
Dimenticate le Fiandre, si corre nelle Ardenne. Il pavé diventa asfalto, spesso mangiato da sole e vento, i muri diventano côtes, gli atleti cambiano, si fanno più sottili, meno imponenti, la potenza diventa agilità. Dopo l’antipasto di Amstel Gold Race e Freccia Vallone, arriva l’ultimo evento delle corse di un giorno, l’ultima possibilità di dare una botta a stagione e carriera prima dell’esodo verso quelle brevi corse a tappe dell’arco alpino, naturale preambolo della stagione dei grandi Giri, verso quel ciclismo che cerca di mettere assieme una nazione, modificando forma e percorso anno dopo anno, mimetizzandosi con i gusti del tifo e dei protagonisti in bicicletta.

 

In Belgio invece non c’è unione, lo stacco è netto, geografico e linguistico. Ma la passione è altissima ovunque: che ci si trovi nelle Fiandre o nelle Ardenne, le gare sono eventi imperdibili, feste nazionali. Il nord del paese si ferma al passaggio del Giro delle Fiandre, il sud il giorno della Liegi. Non ci sono eventi sportivi più importanti, nemmeno la finale dei Mondiali di calcio avvicina lo share televisivo di queste due corse.

 

Se il Fiandre si è evoluto, ha alternato percorsi e muri simbolo, così come sedi di arrivo, la Liegi è un canovaccio sempre uguale a se stesso. Non è mai cambiata, sebbene ci siano state aggiunte successive al tracciato originale, sebbene i punti decisivi del percorso siano mutati negli anni e spostati in là nel chilometraggio, avvicinandosi sempre di più all’arrivo. La côte de Stockeu, la salita di Eddy Merckx dove il Cannibale partiva e salutava gli avversari, è stata sostituita come strappo decisivo della corsa prima dalla Redoute, introdotta nel 1975, ancora oggi la côte per eccellenza, infine dal 1998 la côte de Saint-Nicolas, alla periferia di Liegi, lì dove risiedeva la comunità italiana della città vallone.

 

La “Doyenne” è, tra le classiche del nord, quella più legata all’Italia. Già al termine della Prima guerra mondiale infatti molti nostri connazionali erano emigrati nelle Ardenne alla ricerca di lavoro, ma è stato nel secondo Dopoguerra che questo numero è cresciuto in maniera esponenziale: dai 20 mila degli anni Trenta si è passati ai 200mila degli anni Cinquanta. L’aumento è dovuto in buona parte agli accordi bilaterali firmati dall’Italia con alcuni paesi del nord Europa che concedevano la possibilità di stipulare contratti temporanei di lavoro e di residenza per gli immigrati italiani, su specifica chiamata del paese ricevente: al Belgio serviva manodopera a basso costo per le proprie miniere, all’Italia conveniva favorire l’emigrazione per abbassare il numero di disoccupati e nullatenenti e, allo stesso tempo, diminuire la tensione sociale che sarebbe potuta sfociare in rivolte e scontri.

 

Proprio tra Liegi e Bastogne, la comunità italiana è andata via via aumentando, diventando in pochi anni la minoranza più numerosa. Una minoranza rumorosa ma poco visibile, poco integrata nel tessuto sociale e con pochissimi contatti diretti con la maggioranza francofona. Gli italiani rimanevano relegati nei loro quartieri, divisi tra lavoro e famiglia, a formare un paese all’interno di un altro paese. Le poche occasioni di confronto erano le corse ciclistiche.

 

“Il mio rammarico è solo quello di non essere riuscito a regalare almeno il podio a tutte quelle migliaia di italiani che si erano stipati ad applaudirci.  Sembrava di correre sulle nostre strade per il vociare italiano che sentivo”, disse nel 1951 Gino Bartali di ritorno dalla prima e unica Liegi che corse in carriera, conclusa al sesto posto, miglior risultato per un corridore italiano sino ad allora nella classica vallone, eccezion fatta per il quarto posto dell’italo-francese Maurice Garin nel 1894.

 


Gino Bartali durante una riunione in pista l'indomani della Liegi del 1951


 

La quantità di italiani a bordo strada per anni è stata inversamente proporzionale ai risultati raccolti dai nostri corridori sulle côtes delle Ardenne. Solo negli anni Ottanta infatti la Liegi iniziò a essere terreno di conquista per i nostri portacolori. Fu Silvano Contini a inaugurare l’epoca d’oro del ciclismo italiano alla “Doyenne” nel 1982. Da quell’anno gli azzurri iniziarono a essere assoluti protagonisti, a partire da Moreno Argentin, primo per quattro volte tra il 1985 e il 1991, poi con le doppiette di Michele Bartoli e Paolo Bettini, infine con le vittorie di Davide Rebellin e Danilo Di Luca, ultimo italiano a scrivere il  nome nell’Albo d’oro della corsa nel 2007. Dodici successi che danno all’Italia il primato di nazione straniera più vincente (i belgi ne hanno vinte 58).
Prima di questa stagione, poche partecipazioni, scarsi risultati e grandi delusioni. La Liegi infatti per decenni è stata snobbata dai nostri, attirati più che altro dal lustro del Giro delle Fiandre e dal nome altisonante della Parigi-Roubaix. La corsa delle Ardenne era “roba da belgi”, diceva Magni, “un budello di strade pericolose tra i boschi, dove più che la gamba serve avere dimestichezza coi luoghi”. Mezza verità: in quel ciclismo infatti a motivare gli atleti non era solo il blasone di una corsa, a pesare era anche il montepremi, e quello della “Doyenne” era di poco superiore a quello di una corsa di medio livello nel nostro paese: “Non la si vince per fame, ma per amore”, disse Rick Van Looy, primo nel 1961, facendo riferimento al compenso attribuito al vincitore.

 

Se i grandi corridori si facevano vedere raramente nelle Ardenne, chi in Belgio era andato a cercare fortuna si consolava con i belgi d’Italia. Tra loro il più applaudito era Pino Cerami, siciliano di Misterbianco arrivato al nord bambino: carpentiere, muratore e operaio prima di scoprire la bicicletta a 26 anni. Coraggioso e un po’ folle, piaceva per il suo spirito combattivo, per le sue lunghe fughe che ogni tanto sfociavano in vittorie strepitose, come quella Roubaix del 1960, vinta allo sprint contro un altro italiano d’esportazione, il francese Tino Sabbadini, dopo cinquanta chilometri di fuga, oppure la Freccia Vallone sempre del 1960, ottenuta con un’azione solitaria di oltre 100 chilometri.

 

Vittorie importanti per la comunità italiana ancora segnata dal disastro di Marcinelle avvenuto quattro anni prima, l’8 agosto del 1956, quando, a causa di un incendio nel condotto principale della miniera di Bois du Cazier, persero la vita 262 dei 275 lavoratori dell’impianto nei sobborghi di Charleroi, 136 dei quali italiani. Una tragedia che provocò sdegno in tutta Europa, ma che comportò ben pochi cambiamenti nella vita degli altri minatori in Belgio: piccoli cambiamenti, diminuzione dell’orario di lavoro, qualche miglioria nei sistemi di sicurezza. Affinché le cose migliorassero per davvero servì altro, ci volle quasi un decennio.

 

Quello che i sindacati non riuscirono a fare, gli operai lo ottennero grazie al ciclismo, grazie a un figlio di emigrati italiani, Carmine Preziosi.

 

Il 2 maggio del 1965 si corre la 51esima edizione della Liegi-Bastogne-Liegi, Carmine quel giorno è al via della corsa con il solito compito, quello di stare davanti e lavorare per i capitani, in quell’occasione il danese Jan Jansen e il belga Willy Monty. Carmine ha 22 anni. Campano di Sant’Angelo all’Esca, si era trasferito in Belgio a nemmeno tre anni per seguire il padre che aveva trovato impiego nelle miniere di Parcennes. Ha la faccia da scugnizzo, lo sguardo furbo e parla con quell’accento da macarons – così venivano chiamati gli emigranti italiani dai belgi – mezzo campano e mezzo francese e ha la fama di uno che lavora sodo per gli altri. In due anni di professionismo ha vinto solo la Genova-Nizza in una giornata di pioggia e freddo, con un attacco in discesa spericolato, sfruttando i freni tirati dei suoi più illustri colleghi che non avevano nessuna voglia di rischiare la caduta in una corsa di secondo piano.

 

Anche quel giorno il meteo è avverso. Nubi nere e vento sopra la testa dei corridori, freddo e la consapevolezza che prima o poi sarebbe venuto giù il diluvio. La pioggia puntualmente inizia a cadere a metà percorso. L’asfalto diventa un acquitrino, i corridori abbassano il ritmo e la corsa prosegue lenta sino all’ultima ascesa a una quarantina di chilometri dal traguardo, dove si avvantaggiano una quindicina di atleti, Preziosi in testa a lavorare per Jensen e Monty. Tocca alla Pelforth-Sauvage, la squadra dell’italiano, tirare in testa essendo quella più rappresentata nel gruppetto, e data la presenza dei due capitani l’onere spetta all’avellinese. Solo quando Monty fora a dieci chilometri dal traguardo Carmine si fa da parte, tira il fiato, si guarda attorno. Il vantaggio è rassicurante sul resto del plotone: la Liegi si sarebbe risolta allo sprint. L’arrivo è posto nel mitico velodromo di Roucourt, dove l’anno precedente Sante Gaiardoni si era laureato campione del mondo battendo Antonio Maspes. La pioggia continua a scendere e ha reso il cemento dell’anello scivoloso, stare in piedi è difficile, sprintare un azzardo di equilibrio. E’ Vittorio Adorni a partire per primo, dietro a lui Preziosi pronto a lanciare la volata di Jensen, uno che su arrivi del genere si esalta, uno che occasioni del genere non se le lascia scappare. Carmine alza la velocità, rosicchia centimetri al connazionale, accelera ancora, si sposta per lasciare strada al capitano, pronto a fulminare negli ultimi duecento metri tutti gli altri. Ma quando tutto sembra scritto, la ruota posteriore del danese slitta, lui cade e su di lui piomba tutto il gruppetto. Le bici stridono sul cemento, Adorni si gira, controlla, sorride, capisce che la corsa è sua, perde il ritmo della pedalata. E’ a quel punto che Preziosi capisce che nulla è scritto, accelera, affianca il connazionale, si scompone e con una spallata lo fa sbandare, tagliando per primo il traguardo. Adorni è incredulo, protesta, sporge reclamo alla giuria. I giudici però dicono di non aver visto scorrettezze, dicono che il contatto c’è stato, ma che è stato causato dalla scivolosità del terreno, lo multano per la spallata ma non lo squalificano: non c’è dolo, Carmine Preziosi è il vincitore.

 

Due italiani sul podio non si erano mai visti da queste parti. Il velodromo è una bolgia di bandiere italiane e “evviva”, “urrà”, applausi. I tifosi invadono l’anello inneggiano al macaron Preziosi, si abbracciano e brindano alla rivalsa, sportiva, sui belgi. Poi si riversano per le vie di Liegi, bandiere sventolate al cielo. Cantano, bevono, festeggiano, si parlano. Capiscono che le condizioni lavorative sono dure per tutti, che così non si può andare avanti e che se ce l’aveva fatta Carmine, nonostante le imposizioni della squadra di lavorare per i capitani, ce la potevano fare anche loro a superare il ruolo di gregari. In due giorni si organizzano, lasciano i sindacati al loro posto e si schierano davanti alle miniere con l’idea di non andarsene sino a quando la proprietà non accetterà le loro richieste. I sindacalisti vengono allontanati con la forza: basta intermediazione, ora si discute direttamente con i capi. Le proteste durano tre giorni e finiscono con un accordo che sta bene a tutti: più sicurezza, turni meno massacranti, stipendio maggiorato in base alla produttività. Quello che nessuno era riuscito a fare dopo il disastro di Marcinelle, riuscì grazie a Carmine Preziosi.

 

Anche per la Liegi-Bastogne-Liegi qualcosa cambiò da quel 1965. La corsa cambiò pelle, divenne sempre più ambita anche fuori dai confini nazionali e iniziò a richiamare anche i campioni europei. L’anno successivo Jaques Anquetil, il ciclista più famoso e forte dell’epoca, richiamato dall’eco dei fatti dell’anno precedente, decise di partecipare per la prima volta. La “Doyenne” doveva essere l’ultimo test prima del Giro, divenne il terreno di un’impresa straordinaria: il transalpino attaccò a oltre 70 chilometri dall’arrivo, s’involò sulla côte de Stockeu e rifilò al traguardo oltre quattro minuti al secondo. Fu la consacrazione della Liegi che si trasformò in appuntamento irrinunciabile per tutti i migliori ciclisti. Le Ardenne non furono più l’altro Belgio, la classica assunse una sua dimensione autonoma, regina anch’essa, non più suddita del Giro delle Fiandre.