Missione pavé. La Parigi-Roubaix di Wiggins, la tecnologia, la lezione di Dejonghe

Giovanni Battistuzzi
La Pinarello, l'azienda veneta che fornisce le biciclette alla squadra del campione inglese della Sky, ha realizzato una bici rivoluzionaria, con un piccolo ammortizzatore posteriore per agevolare i suoi atleti. Ma la storia della corsa è piena di innovazioni fallite: "Servono gambe non novità", diceva Merckx.

Non c’è corsa nel panorama ciclistico che può vantare più soprannomi e nomignoli, che crea partiti tra favorevoli e contrari, innamorati e detrattori, come la Parigi–Roubaix. C’è chi la considera la Classica, quella con la c maiuscola, come se le altre grandi gare del calendario mondiale non potessero nemmeno avvicinarsi al suo blasone, la “classica delle classiche”, la “Regina”, “sua maestà”; c’è chi l’ha ribattezzata “l’inferno del nord”, come il valdostano Maurice Garin nel 1897, vincitore della seconda edizione; chi “l’ultima follia del ciclismo moderno”, follia sì, ma con deferenza. C’è chi l’aspetta tutto l’anno, perché vincere sul velodromo di Roubaix non solo rende eccezionale una stagione, ma fa brillare un’intera carriera. E’ il gruppo degli entusiasti, degli amanti, di chi questa corsa la sogna, la aspetta, la celebra. Nessun plebiscito però, ma due fazioni, un muro in mezzo. Impossibile il dialogo, la mediazione. Gli altri sono gli scettici, i critici, i malevoli. E la Roubaix diventa “porcheria”, come per Bernard Hinault, “idiozia ciclistica”, Charly Gaul, “follia insensata”, Luis Ocaña, “ciclocross”, Beppe Saronni.

 

Divisioni e opposti giudizi sono normali per una corsa di poco più di 250 chilometri che di normale non ha niente. Un lungo “pellegrinaggio” (come la definì, in modo spregiativo, Henri Pélissier) nella campagna francese, dalle porte della capitale (Compiègne) verso l’estrema periferia del paese, dipartimento di Pas-de-Calais, in un niente di campi coltivati, paesi di qualche migliaia di abitanti, dispersi nella monotonia della pianura che va verso le Fiandre. Un lungo pedalare in piano, senza salite dove scattare, senza discese dove attaccare. La Roubaix è eccezione, gli strappi non servono, le ascese sono orizzontali e hanno la forma di strade stette, di campagna, di un tempo passato, lastricate di cubi di porfido, che è pavé, per nome, che è fatica, tanta, che è equilibrio, eleganza e forza, per vincere. Serve questo per arrivare primi nel velodromo, bisogna saper guidare la bici, gestirne vibrazioni e imbizzarrimenti, avere rispetto, capire che non si è altro che comparse, perché il primattore è ciò che sta sotto le ruote e il compito di ognuno è di assecondare le sue pieghe al meglio.

 



 

In 112 edizioni il pavé ha esaltato e respinto, è diventato leggenda e patema, ostacolo e trionfo. E’ stato discrimine. Per domarlo ci vuole classe, certo, ma soprattutto una dote particolare, qualcosa di innato, capacità di adattamento, di assorbire le vibrazioni, equilibrio, tenacia. La Roubaix ha esaltato campioni universali, come Roger De Vlaeminck, Eddy Merckx e Francesco Moser, e fenomeni da pietre, gente specializzata nell’andare forte in condizioni estreme, come Tom Boonen, Gilbert Duclos-Lassalle e Johan Muuseeuw, forse il più forte di sempre sul pavé. Ha celebrato l’eleganza di Franco Ballerini, il più bello di tutti sui blocchi di porfido, e Felice Gimondi, la cattiveria di Sean Kelly, la potenza di Fabian Cancellara. Corridori diversi, uniti però dalla capacità di adattarsi, di rendersi umili, almeno in questa gara, almeno su di un terreno che non perdona la tracotanza e la superbia. “E’ azzardo e speranza. A ogni metro puoi essere a terra, devi accelerare per rimanere in piedi, dimenticare freni e paura”, disse Museeuw nel 1997, aggiungendo: “Qui servono le gambe e coraggio, la bellezza della Roubaix è che è un luogo sospeso nel tempo. Nel ciclismo tutto passa e si evolve, solo qui nulla cambia, le innovazioni non contano, serve solo sensibilità e coraggio”.

 



Doti innate, che spesso la tecnologia ha provato a imitare e a esaltare. Tanti sono i costruttori di bici che hanno provato a ingegnarsi per superare l’ostacolo Roubaix, ultima la Pinarello che ha donato a sir Bradley Wiggins e soci una bicicletta rivoluzionaria, con un piccolo ammortizzatore su carro posteriore (il triangolo più piccolo di una bici che regge la ruota posteriore) che, secondo i calcoli del produttore, dovrebbe garantire agli atleti un 9 per cento di velocità in più sul pavé, a causa delle minori vibrazioni. L’ex vincitore del Tour de France sorride, gongola, pensa in grande.

 



 

Se la rincorsa dei produttori di bici avrà un lieto fine lo vedremo stasera, per ora è una storia di fallimenti, débâcle e grandi arrabbiature. Da sempre i corridori hanno cercato di agevolare la loro pedalata con stratagemmi caserecci per sentire meno i sobbalzi della bici. Coppi metteva gommapiuma sotto il nastro del manubrio, Rik Van Looy foderava la sella di una strana soluzione semiliquida fatta di uova, colla di pesce e gelatina, Bernard Hinault preferiva correre con bici più lunghe del normale per subire meno contraccolpi alla schiena.

 

Nel 1977 la Gitane prova a introdurre migliorie tecniche per avvantaggiare i suoi: inserisce un ammortizzatore sotto la sella e uno (sul mozzo) sulla ruota posteriore, dove questa si aggancia al telaio. Risultati pessimi: tre bici rotte, quattro ritirati su otto, Willy Teirlinck, il capitano, secondo, ma con la bici tradizionale, perché a lui le innovazioni non piacevano a tal punto che corse 16 anni con uno stesso modello di bici. Negli anni Novanta ci hanno provato Cannondale, Bianchi e Cicli Moser a inserire ammortizzazioni un po’ ovunque (la Bianchi nel 1994 addirittura diede ai suoi atleti una bici con doppia ammortizzazione), ma i risultati restarono ampiamente deludenti: vincevano gli altri e le migliorie introdotte risultavano pressoché inutili, trionfava comunque il pavé.

 

Wiggins spera che la storia cambi, che Pinarello questa volta c’abbia visto giusto, che la tecnologia lo aiuti a esaltare il suo grande talento, che non continui la litania che innovare è pressoché inutile e che tra il nuovo e l’antico, forse è meglio l’antico. Sembra un paradosso, forse lo è, ma almeno una volta ha funzionato.

 

Anno 1922, domenica 16 aprile, 23esima edizione. Sono 148 i ciclisti alla partenza, tra loro Henri Pélissier, favorito numero uno, vincitore di due Roubaix. Al via gli sguardi sono tutti per lui, come gli applausi, le grida gli incitamenti. I francesi tifano il loro beniamino, bello ed elegante. Nella loro corsa vogliono allontanare la minaccia belga e italiana che già in troppe occasioni (tre vittorie azzurre e due belghe) si è inserita nell’albo d’oro. Nella pattuglia belga c’è Léon Scieur che l’anno precedente aveva vinto il Tour de France e che gode, si dice, della simpatia del re e della regina. Pélissier e Scieur montano i nuovi tubolari della Dunlop, rinforzati e resi più scorrevoli, dice la casa produttrice; gli altri tubolari normali. Solo uno si distingue: è Albert Dejonghe, ciclista fiammingo di medio talento, una vittoria in carriera ma tre anni prima, ora senza squadra. Corre da isolato, ha maglietta grigia, pantaloncini neri, nessuno sponsor, ma uno sguardo furbo. La sua bici indossa vecchi tubolari con il battistrada in gomma piena alto oltre un centimetro e dal peso triplo di quelli più recenti. Chi lo vede alla partenza pensa: “Questo qui a Roubaix non ci arriva e se ci arriva a notte inoltrata”. Il belga è ignorato da tutti, nessuno lo considera, con quella bici non sarebbe nemmeno da uscire per strada, sembra aver detto Pélissier, figurarsi alla Roubaix. Ma Dejonghe non bada al francese, è uno che vive alla giornata, sorride spesso, è molto simpatico, ha tanti amici e soprattutto un piano. L’obbiettivo è arrivare con un ritardo ragionevole dai primi sino a Hornaing, a settanta chilometri dall’arrivo, poi qualcosa sarebbe accaduto. Albert è determinato, rimane con i migliori sino al tratto di pavé di Pont Gibus, perde qualche decina di secondi, ma continua imperterrito. Il successivo tratto è quello decisivo, non perché sia il più difficile, non perché sia l’ultimo, ma perché è quello più amichevole. I suoi soci infatti hanno sistemato in nottata uno scherzetto ai corridori, proprio nel settore più lungo di pavé. Due “infornate di puntine da disegno, una all’iniziar del tratto, l’altra al terminar dello stesso”, scriveva l’Equipe. Si fermano tutti con le gomme a terra, tutti tranne Dejonghe, che recupera i primi e si invola verso la vittoria con quelle sue ruote antiche e pesanti. “Non avevo soldi per gomme migliori, la fortuna mi ha teso la mano”, disse all’arrivo. In pochi gli credettero.

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