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I fantasmi della Parigi-Roubaix, corsa che viene dall'oltretomba

Stefano Rissetto

La Roubaix non è una corsa ciclistica, ma una riuscita metafora di quasi tutto quel che agli umani possa capitare, quasi sempre di peggio

Questa è una canzone di pietre e di morte, di guerra e carbone, di fame e coraggio. Questa è la storia del ciclismo che non ha più storia, perché il ciclismo è finito con il Novecento di cui era stato la colonna sonora, in quell'Europa anch'essa tramontata con il Novecento, lascia soltanto il suo ricordo e quindi è giusto si corra tra i fantasmi, ogni seconda domenica di aprile, in una terra grassa un tempo squassata dalle cariche di fanteria e dai colpi di cannone, dove da millenni gli alberi vanno a morire sottoterra, per diventare sassi che bruciano. Questo è lo spettacolo della paura e della fantasia, dell'assurdo e del tormento, dell'incoscienza e dell'acido lattico, del tradimento e della notte che cala nel primo pomeriggio. Questa è la corsa che va da una torre di ferro buio a un'ellisse di cemento color deserto, un filo teso nel nulla tra la città di mille milioni di luci sempre accese e il paese delle miniere e della desolazione, un filo nero lungo duecento e cinquanta chilometri, senza nemmeno una salita, estrema stranezza per chiunque pedalando insegua la gloria, fingendo d'ignorare l'impossibilità di andare in fuga dalla propria ombra. Questa è la perdizione di tutti i corridori e la gloria per uno all'anno. Benvenuti all'inferno, benvenuti alla Parigi-Roubaix.

La Roubaix non c'era in natura, la inventarono per caso, tirando una linea immaginaria che unisse la Capitale a un velodromo appena inaugurato, non sapevano però che cosa stessero maneggiando. Credevano di aver escogitato una corsa come le altre e infatti lo sarebbe rimasta per molti anni, doppiando inerte o quasi il primo e il secondo conflitto che l'avrebbero interrotta, forse più difficile di altre per via del percorso, che andava a dipanarsi fra sterrati e acciottolati. Era una gara difficile, brutta da vedersi, nelle giornate di maltempo i corridori arrivavano al traguardo vestiti di lava come i pompeiani sorpresi dal vulcano, un'altra storia lontana che porta al centro infuocato della terra, quando invece il sole la illuminava allora era la polvere a infilarsi negli occhi, nei pori della pelle, anche nelle ossa trovava il mondo di arrivare. Ma col tempo e con l'asfalto la Roubaix - si dice “la Roubaix”, come “la Sanremo”, perché nel ciclismo come in tutto il resto conta l'arrivo e non la partenza - era diventata una kermesse come le altre, perfino noiosa perché piatta, alla portata di tutti. E allora, per raggiungere il futuro, bisognava riportare indietro l'orologio ancor prima di quando tutto era cominciato: Jacques Goddet, direttore di corsa, prese la carta geografica del sistema arteriovenoso del Nord, andando in cerca di ogni tratto ancora squamato in porfido, sarebbero stati quei sentieri di dannazione a rarefare il plotone, a spremerne l'anima. Ecco la fosca Foresta di Arenberg, il lugubre Carrefour de l'Arbre, i tremila metri maledetti di Mons-en-Pévèle. Alla fine dell'autopsia, condotta su quel che restava delle strade decomposte di una terra desolata, sulla mappa di monsieur Goddet comparve, in inchiostro simpatico color del sangue, una marcia al supplizio scritta su un pentagramma dove le note erano le mattonelle scure.

 

La Roubaix è una storia che viene dall'oltretomba, l'Enfer du Nord appunto, fatta di partenze di massa e arrivi sgranati come rosari di sofferenza. Un modo crudele per distillare eroismo e grandezza, un espediente bislacco per sorteggiare oscuri nessuni premiati a casaccio dalla buonasorte nella giornata della vita. Dopo sei ore di corsa, il velodromo assomiglia al disco di una roulette, dove ogni tanto esce lo zero, perché la pallina si ferma dove si ferma. Nell'albo d'onore i grandi, anzi i grandissimi ci sono quasi tutti, ma i posti di Bartali, Zabel, Bettini, Anquetil, Saronni e Indurain sono infatti presi da militi ignoti come Backstedt, Guesdon, Rosiers, Knaven, Wampers e Demol: ogni lista d'altronde, Premio Nobel compreso, ha i suoi miracolati e scomunicati. Ma qui non ci sono accademici a giudicare, piuttosto una volontà insondabile che dispone di cadute, forature, guasti meccanici e ogni altra malaventura che possa condizionare un'umana intrapresa. È un circo tristemente allegro che procede nel vuoto, attorniato dagli spettatori che osservano felici e sgomenti la processione dei penitenti, afflitti da vibrazioni, sommovimenti, scosse e tutto quel che la strada somministra. I corridori passano cigolando, sferragliando, tremolando, il rumore del gruppo è il guaito di un cane sperduto di acciaio e caucciù e sudore, se ne vanno nel niente rimpicciolendo tra gli alberi e le montagne nere di torba.

 

La Roubaix ebbe anch'essa i suoi cedimenti a una malintesa idea di modernità: una trentina d'anni fa, per ragioni commerciali, l'arrivo era stato spostato davanti ai cancelli di una fabbrica, la cui proprietà si era scomodata non poco per il disturbo: il tempo di raccapricciarsi e presto si tornò al velodromo. Nel 1992 Segolene Royal, ministro dell'Ambiente, dispose la classificazione dei tratti di pavé come beni culturali vincolati, al pari di un monumento. E nei primi anni del nuovo secolo, nel centro di Roubaix sono stati addirittura costruiti tre nuovi segmenti in pietre aguzze e intervallate, come altri ogni anno vengono restaurati o rigenerati a complicare gli ultimi chilometri di corsa, a perfezionare la sospensione dell'incredulità, la finzione scenica, il falso movimento che differenzia la vita dall'arte, con la prima che sempre imita la seconda, a maledire le anime dei pedalatori che s'infilano in questa lontananza cannibale, ben sapendo di poter soltanto chiedere salvazione provvisoria a un dio distratto e forse malevolo.

 

La Roubaix non è infatti una corsa ciclistica, ma una riuscita metafora di quasi tutto quel che agli umani possa capitare, quasi sempre di peggio. A vincerla sono stati perfino due fratelli, Serse e Fausto Coppi, il primo dopo aver perso, il secondo al culmine di una delle sue lunghe fughe. Ora tutti e due da molti anni dormono sulla collina di Castellania, forse ricordano quando l'Airone aveva lanciato al traguardo il suo gregario familiare, minore di quattro anni, destinato a trovare la Signora non per un tubetto di chinino in meno al ritorno dall'Alto Volta ma per un binario del tram sul traguardo del Giro del Piemonte. Coppi junior non era riuscito a riprendere il gruppetto guidato da Mahé, ma aveva vinto quella che sembrava la volata dei battuti. Il francese e gli altri fuggiaschi erano entrati però nel velodromo dalla parte sbagliata e ci sarebbero voluti sei mesi, perché i giudici decidessero che avevano vinto entrambi, quindi davvero nessuno dei due.

 

La Roubaix non esiste davvero, si consuma in sei ore come una buia fantasia, i vincitori hanno diritto a un cubo di porfido da portarsi a casa, un'altra pietra porterà il loro nome, come uno dei cubicoli delle docce, inquietante scacchiera di lapidi da tripperia, da cimitero militare, da tempio etrusco. La Roubaix è un labirinto, di quelli perfetti perché dissolvono nei prigionieri l'anelito al fuori, di quelli inesorabili perché invisibili, come il dedalo di sabbia senza muri corrispondente al deserto che aveva architettato il re arabo di Borges. Alcuni riescono a scapparne: Saronni ci era venuto una sola volta illudendosi di eguagliare il rivale per fuggirne in lacrime dopo una caduta; Hinault si trovò a doverla vincere per completar se stesso, scagliando però lontano da sé la bicicletta dopo l'arrivo imprecando “jamais plus, cette merde”, le stesse parole del dottor Destouches per definire la medicina. Ballerini si era fatto impietosire da Duclos-Lassalle, prossimo ai quarant'anni e campione uscente, che gli aveva chiesto di non staccarlo, per arrivare almeno insieme al traguardo dove lo aspettava la moglie, salvo fare la volata e gabbarlo e rivincere; ma il giuramento di mai più tornare in quella trappola era rimasto inevaso, fino a due vittorie che unite ai piazzamenti gli erano valse la cittadinanza onoraria della sede d'arrivo, folata di felicità prima di incappare in un destino triste, contro il muro di una villetta monofamiliare, non in bicicletta ma su un'auto da rally, sempre però su una strada sterrata, in un posto chiamato Case al Vento.

 

La Roubaix c'entra poco o nulla col ciclismo, è un rito pagano che va in cerca di una divinità assente, infatti ormai si corre con biciclette speciali, ridisegnate nel tentativo impossibile di conciliare la necessità di attenuare scossoni e tremori inflitti dal fondo stradale con il dovere di non disperdere nell'ammortizzazione l'energia cinetica. Sono cavalli meccanici strani e indocili, le biciclette della Roubaix: a fine corsa se ne andranno al museo o in officina, per restarvi un anno intero. Non sono i soli mezzi inanimati che vivono la gara: anche i treni fanno la loro parte, incrociando il percorso, tagliandolo, imponendo talvolta le soste ai passaggi a livello, come tre anni fa quando la sbarra si era abbattuta sul campione nazionale francese Demaure, altri corridori avevano superato l'ostacolo pochi attimi prima dell'arrivo di un TGV per trovarsi non squalificati, come altri concorrenti nel 2006, ma denunciati dalle SNCF per violazione del codice della strada.

 

La Roubaix si corre in Francia, ma in una Francia di piattume e torbiere e ciminiere e greggi e solitudine che assomiglia al Belgio, a quel Belgio che non assomiglia neanche a se stesso. Infatti l'albo d'onore è una questione di belgi e francesi, i primi l'hanno vinta 55 volte, quasi più di tutti gli altri messi insieme; i secondi 28 volte. A seguirli con 13 vittorie sono gli italiani, che pure loro sono più o meno del posto, perché da queste parti tra Lens e Charleroi venivano a fare i minatori, al pari dei polacchi come Jean Stablinski, che era uscito dai pozzi per vincere perfino un Mondiale a Salò, ma alla Roubaix c'era venuto soltanto dopo aver smesso di correre, per suggerire appunto a monsieur Goddet ogni anno nuovi vecchi tratti di pavé, a rendere la corsa più infame e quindi bella, più bella e quindi infame. Ma un italiano non vince sulle pietre ormai dal secolo, dal millennio scorso, dal successo di Andrea Tafi nel 1999; da allora solo due secondi posti con Pieri (2003) e Pozzato (2009) e due terzi sempre con Ballan (2006 e 2008).

 

La Roubaix quest'anno sarà prima di tutto il passo d'addio di uno dei suoi più grandi interpreti, di una delle sue vittime preferite, di uno dei protagonisti estremi degli splendori e delle miserie del ciclismo. Alla fine della scorsa stagione, il trentaseienne Tom Boonen - che aveva appena chiuso al terzo posto, dietro Sagan e Cavendish per un podio tutto di ex iridati, il primo Mondiale corso tra le sabbie del deserto qatariota – firmò il suo ultimo contratto da professionista, con scadenza 9 aprile. Il “Re delle Fiandre”, alto come un portiere di calcio e dal fisico che pare costruito apposta per questa e per le altre gare sul pavé, è stato il più forte passista veloce della sua generazione, alternando successi immani a un paio di squalifiche per doping improprio, perché la neve di Pitigrilli non migliora le prestazioni sportive, anzi. È caduto quindi, perché cadere è un'antica usanza dei corridori, si è rialzato, ha vinto. È stato campione del mondo nel 2005 a Madrid, ha conquistato per tre volte il Giro delle Fiandre e altrettante la Gand-Wevelgem, ma soprattutto per quattro volte (2005, 2008, 2009 e 2012) proprio la Roubaix. Soltanto un altro corridore nella storia, tra il 1972 e il 1977, ha fatto poker, ovviamente un fiammingo: Roger De Vlaeminck. Adesso Boonen ha l'estrema occasione per superarlo: alla fine della Roubaix, scenderà dalla bicicletta per sempre e se lo facesse da vincitore conquisterebbe il cubetto di porfido più importante di sempre, un posto unico nella storia del ciclismo.

E' un ultimo tentativo che, come tanti tignosi cimenti, nasce dal fallimento in un precedente. Lo scorso anno, infatti, tutto il velodromo aspettava Tom, senz'altro il più veloce del gruppo ristretto di testa, ma il favorito aveva sbagliato a impostare la volata, trovandosi chiuso alla corda dal connazionale Vanmarcke e per meno di mezza ruota non era riuscito a rimontare Hayman, uno sconosciuto australiano che a trentott'anni vinceva la prima e unica corsa della sua vita, salvando il primato condiviso di De Vlaeminck, il gitano di Eeklo, settant'anni ad agosto, una carriera cominciata non a caso nel ciclocross e finita con il titolo di “Monsieur Roubaix”. Un rango che adesso Boonen, giocandosi tutto in un giorno, lui che delle corse di un giorno è stato uno dei massimi mazzieri, tenta di prendere tutto per sé.

La Roubaix può finire in trionfo come in crudeltà. Boonen sa bene che la corsa sulle pietre è una vasca di pescicani, man mano che ci si avvicini alla conclusione. I nomi dei rivali, per lui che aveva battagliato con Museeuw e Cancellara rimasti a tre successi, sono quelli di Kristoff, Terpstra, Van Avermaet, Gilbert, Stybar, Degenkolb e naturalmente Sagan. Lo scorso anno, sul traguardo di Doha, il primo a fargli i complimenti per il bis mondiale era stato proprio Boonen, giunto terzo. Stavolta lo stesso Sagan dice che sarebbe bello il contrario, ma l'istinto dello scorpione lo porta a provare a rovinare con la realtà quella che sarebbe una bellissima storia.

 

La Roubaix è una canzone di vita e d'erba amara, di pace e di legno, di furia e terrore. Questa è la storia del ciclismo che sempre avrà storia, perché il suo Novecento continua nel ciclismo che ne resta tra i lasciti migliori, in quell'Europa rimasta nel castello del Novecento, un castello di ricordi che sembrano speranze e di speranze che assomigliano a ricordi, questa è una corsa di fantasmi vivi e di vivi che imitano i fantasmi, per esser morti senza mai morire, nella seconda domenica di aprile, in una terra che sa di inchiostro e di grasso meccanico, dove per chissà quanti altri millenni il carbone sarà l'unico oro possibile. Questo è il museo del coraggio e del calcolo, della geometria e del cinismo, della strategia e della potenza aerobica, della devozione e del tardo pomeriggio che avverte il rumore degli ingranaggi della notte. Questa è la corsa che non si corre ma si soffre, che va dalla tomba di Jim Morrison a una linea bianca in fondo a un cerchio schiacciato, una linea telegrafica che connette la capitale di tutte le arti e il paese della fatica e del lavoro, una linea telegrafica che sorveglia strade dove la pianura è più salita della salita, percorsa da pazzi ragionevolissimi che attingono al fuoco di se stessi per superare l'orrore, l'orrore, la solitudine infinita del corridore ciclista che è un tutt'uno di metallo, muscoli, gomma, occhi, olio, nervi, vernice e fruttosio, l'anima intesa alla gloria, lontano il più possibile dal sole che disegna ogni ombra. Questa è la perdizione di chi vince e scopre che vincere era solo un attimo, la gloria di tutti quelli che arrivano senza voltarsi indietro, dopo aver sottratto Euridice all'inferno. Benvenuti al paradiso, benvenuti alla Parigi-Roubaix.

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