Fausto Coppi su una salita al Giro d’Italia del 1952. Sempre al Giro, sempre su una salita era nato dodici anni prima il suo mito

Un Giro di salite

Giovanni Battistuzzi
Prende il via l’edizione numero 98 della corsa rosa. Per vincere bisogna attaccare sulle strade più difficili. Quelle di Coppi e Pantani. Dall'Abetone del Campionissimo, al Mortirolo del Pirata, i luoghi di oggi e le imprese di allora che hanno reso indimenticabile il Giro d'Italia.

Maggio è colore. Quello dei fiori sugli alberi, nei prati, delle camicie che si levano il peso scuro dei cappotti, delle gonne delle donne. Quello delle magliette dei ciclisti che invadono le strade, a piccoli gruppi, la domenica, a flotte, centinaia tutti assieme quando in palio c’è la maglia più ambita, più colorata delle altre, quella rosa. Perché maggio è soprattutto Giro d’Italia. Appuntamento fisso, imprescindibile. Oggi da San Lorenzo al Mare, provincia di Imperia, parte l’edizione numero 98, nuova puntata di un amore iniziato nel 1909, telenovela italica che raduna sulle strade e davanti alla televisione migliaia e migliaia di persone, che ogni anno si rinnova, cambia scenari e interpreti, per rimanere sempre uguale a se stessa.

 

Mutano strade e città, favoriti e protagonisti, cantori e resocontisti, ma non il filo conduttore, le biciclette e quelle gambe che le muovono, che sono uomini prima di tutto, che sono storie, di vittorie e di sconfitte, di fatica e di sudore, che sono volate e cronometro, anche, ma soprattutto scatti e accelerazioni, che sono salita e salite. Perché è qui che il ciclismo si fa storia, diventa epopea, i Giri si vincono e si perdono. E’ quando la strada sale, si fa irta, il fiato corto, i muscoli bruciano e i polmoni con loro, che il ciclista si accorge della solitudine di questo sport, capisce di essere un forzato della strada, senza più alternativa se non quella di fare in modo che tutto abbia fine nel più breve tempo possibile. Il cuore diventa cassa rullante, l’adagio un prestissimo e i compagni di avventura un inutile peso.

 

Anche in questo Giro d’Italia la salita sarà decisiva. Molte le montagne che i corridori dovranno valicare, alcuni mitici, entrati nell’immaginario della corsa rosa, alcuni nuovi o seminuovi, altri ripescati dalla memoria storica dopo anni di naftalina. Un percorso più appenninico rispetto al recente passato, con due arrivi in salita e un paio di tappe movimentate buone a creare spettacolo e a saggiare la condizione dei candidati alla vittoria. Un percorso che vedrà le Alpi ancora crocevia degli eventi che riguarderanno la classifica generale. Canovaccio solito, consolidato, al quale però mancherà qualcosa. Le assenti sono le Dolomiti, le regine delle salite. Niente Giau o Pordoi, Tre cime di Lavaredo o Marmolada, gli organizzatori hanno concesso loro un anno di pausa, il Giro lo si vincerà altrove.

 

La montagna è andata e ritorno, ascesa e discesa. Due atti dello stesso spettacolo: a naso in su verso la cima, lenta, a passo cadenzato o a strappi utili a levarsi gli avversari di torno. Il culmine, un guardarsi attorno per capire chi è rimasto, conta dei sopravvissuti e dei dispersi, riprendere il fiato ed è già ritorno, picchiata. La strada diventa un vortice, i freni unico appiglio, ma è meglio toccarli il meno possibile, soprattutto se si è smarrita la ruota dei più forti.

 

Se le montagne sono un naturale arrampicarsi seguito da un planare, il ciclismo a volte sfida le convenzioni fisiche per assumersi la responsabilità di un non ritorno. Sono gli arrivi in salita, terra di scalatori, corpi leggeri votati alla sofferenza. Il primo che i corridori troveranno quest’anno è alla quinta tappa. L’Abetone divide Toscana ed Emilia Romagna, è luogo di sci in inverno, escursioni in estate e funghi in autunno. E’ un valico tra due panettoni appenninici dai fianchi dolci e lunghi, una strada larga che sale regolare tra faggi e abeti bianchi, che diventa irta a metà ascesa per poi placarsi e accompagnare stanca gli atleti verso la sommità. L’Abetone è tutto questo, ma è soprattutto una data, un nome e un cognome. 29 maggio 1940, il giorno della nascita del mito di Fausto Coppi. “Fu allora sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine”, racconta sulle pagine del Corriere Orio Vergani, “che io vidi venire al mondo Coppi. Vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”. E’ l’11esima tappa, Firenze-Modena, 184 chilometri. E’ il Giro che doveva essere di Gino Bartali, poteva essere di Enrico Mollo, si trasformò nella prima affermazione di quello che sarebbe diventato poi il (secondo) Campionissimo. Quattro monti da scalare, Piastre, Oppio, Abetone e Barigazzo sotto una pioggia fitta e fredda, che più che maggio sembrava inverno. Fausto è giovane, è al secondo anno da professionista, il primo in una squadra (aveva iniziato nel 1939 da indipendente), il primo alle dipendenze di Bartali alla Legnano. Ginettaccio è il capitano, ma cade subito a causa di un cane che gli taglia la strada nella seconda tappa e sull’asfalto del Passo della Scoffera si incrina un femore, lascia oltre cinque minuti ai migliori e dice addio ai sogni di primato. L’infortunio a Bartali lascia spazio ai gregari. E Coppi apre le sue ali di Airone per lanciarsi verso la sua prima grande impresa, verso il primo dei suoi cinque Giri d’Italia.

 

Le salite hanno potere demiurgico, non si limitano a esaltare caratteristiche fisiche, capacità e tempra dei corridori, li creano: sulle loro strade i nomi letti nella lista degli iscritti diventano volti, fisionomie, espressioni.

 

Cinquantaquattro anni dopo Fausto, sbocciato sotto la pioggia dell’Abetone, è il Mortirolo a rivelare al mondo un altro campione. E’ il 5 giugno 1994, 15esima tappa, da Merano al Passo dell’Aprica, 188 chilometri. E’ lì che nasce Marco Pantani, non ancora Pirata. Aveva 24 anni, aveva già vinto a Merano il giorno prima: scattato a un chilometro dalla cima del Passo di Monte Giovo, si era involato in discesa tenendo tutti gli avversari alle spalle. Vittoria, certo, la prima al Giro, ma per l’investitura serviva altro, serviva il battesimo. Avvenne lungo le rampe che portano al più temuto tra i passi, quel Mortirolo che, introdotto per la prima volta in una tappa nel 1990, era diventato sinonimo stesso di fatica, calvario, salita da impresa. “Già il nome: Mortirolo. Se fosse meno terribile, se fosse più umano, se fosse meno letale, se fosse più ragionevole, si chiamerebbe Bleis o Baitone o Lagoscuro, come sono state battezzare altre vette nei paraggi. Invece: Mortitolo. Un nome che promette sangue, sudore e lacrime, che non garantisce mai il lieto fine e rende perfettamente l’idea di una parete per cui sputi l’anima, su cui lasci le penne, da cui non torni più così ingenuo come sei partito. Forse felice dentro, ma certo segnato, segato, invecchiato fuori. E per sempre”, così lo descrive Marco Pastonesi. Su quella strada, su quel serpentone d’asfalto irto verso il cielo tra la Valtellina e la Val di Corteno, Pantani scatta, stacca, saluta, si invola. C’è chi prova a stargli a ruota, chi si guarda attorno, chi capisce che non c’è nulla da fare se non guardargli la schiena, fargli un cenno con il capo e rivederlo al traguardo. Il Mortirolo sotto le ruote è teatro verticale, che Marco appiattisce. Il profilo minuto di quello scalatore con orecchie grandi e pochi capelli in testa diventa per tutti quello di Pantani, l’Elefantino di Cesenatico, poi il Pirata, infine il più grande grimpeur (forse) di tutti i tempi. Il resto è storia. Pantani che attende Rodriguez e sua maestà Indurain sulla strada verso l’Aprica, che collabora con loro, che poi attacca di nuovo sulle rampe del Valico di Santa Cristina, per abbandonarli, ancora, al loro destino, fuggire e vincere.

 

 

Il gruppo quest’anno si ritroverà meno ingenuo di come era partito alla 16esima tappa, da Pinzolo all’Aprica, 177 chilometri, seconda frazione alpina, terzultima occasione per dare un colpo alla classifica, tentare di scalare posizioni o evitare la rimonta di altri. Pantani non c’è più, se ne è andato, ma da Mazzo di Valtellina (da dove la salita inizia) ai 1.854 metri del Passo della Foppa, o meglio Mortirolo, sarà come se questi undici anni non fossero passati.

 

Se il Mortirolo sarà il simbolo di questa edizione del Giro, il Colle delle Finestre sarà la copertina. Se il primo è parete, scalata, martirio, la seconda è anfiteatro, immagine, fotografia. Un lungo ascendere, duro, ma regolare. Diciannove chilometri costanti al nove per cento, otto di questi senza asfalto sotto le ruote, con terra e ghiaino a rendere ancor più infame il risalire dalla val di Susa ai 2.178 metri della cima, dal fondovalle a lì dove stanno gli indiani, i tifosi avventurieri posizionati sul crinale che dall’Orsiera scende verso il passo. Scalata giovane, terza presenza in corsa, Cima Coppi – premio speciale per il monte più elevato affrontato dal gruppo – quest’anno. Prima ascesa nel 2005, Danilo Di Luca primo, alle sue spalle, staccato, Paolo Savoldelli che cerca di salvare la sua maglia rosa: ce la farà. Nel 2011 la seconda riproposizione. Alberto Contador è leader incontrastato, nessuno che può mettere in discussione il suo dominio (verrà squalificato solo otto mesi dopo per la positività al clenbuterolo al Tour del 2010). Il Colle così dimentica i big e si lascia domare dai battitori liberi: è Vasil’ Kyrienka a deporre le vesti di gregario per trasformarsi in esploratore e a inerpicarsi solo verso la vetta. Il bielorusso, in fuga dal mattino, molla tutti sui pedali in un monologo di oltre 50 chilometri, incrementa vantaggio e applausi, su tutti, gruppo compreso.

 

 

La montagna è terra di eremiti e avventurieri solitari. E’ sopportazione e adattamento, soprattutto a una certa quota. Così è nella vita, così nel ciclismo. In bicicletta non conta solo la pendenza, a fare la differenza è anche l’altitudine. Il discrimine è attorno ai duemila metri, è lì che l’ossigeno diminuisce e le differenze tra i corridori aumentano. La sofferenza diventa agonia, i pedali più duri. La 20esima tappa è quella delle grandi altitudini: Saint-Vincent-Sestriere, 199 chilometri, gli ultimi 50 senza pianura. Prima il Colle delle Finestre, infine l’ascesa al Sestriere.

 

Sestriere è il comune più alto d’Italia, ma soprattutto il primo duemila scalato al Giro. Storia vecchia di oltre un secolo: 1911, terza edizione della corsa, quinta tappa, Mondovì-Torino, 303 chilometri. Il Sestriere, ora rinomata località sciistica, al tempo era un borgo sperduto collegato da una mulattiera. I girini affrontano i 38 chilometri che separano Perosa Argentina dalla cima, si fermano a inizio salita, girano la ruota per montare il rapporto leggero (all’epoca il cambio non esisteva) e iniziano a salire. Solo un baffuto francese cresciuto in Argentina non interrompe la propria corsa: è Lucien Mazan, per tutti Petit-Breton. La sua squadra, la Fiat, gli ha infatti fornito un mozzo speciale, dotato di un rudimentale cambio a molla che riduceva automaticamente la durezza del rapporto. Il bretone va forte, pedala là dove molti sono costretti a scendere di bicicletta, ma si trova a fare da apripista, rimane invischiato nel fango della carreggiata, cade, si rialza, fora, viene superato da altri sette corridori. Lì il bolognese Ezio Corlaita scatta, riesce a raggiungere per primo la vetta innevata. Petit-Breton non demorde, si getta senza remore all’inseguimento, raggiunge i primi e li batte allo sprint, salendo al terzo posto della generale. Il francese, già vincitore del Tour del 1907 e 1908, riuscirà a raggiungere la vetta della classifica al termine della nona tappa, primo straniero a farcela, ma si ritirerà il giorno seguente per la rottura del cambio che lo agevolò lungo il Sestriere (al tempo i corridori non potevano sostituire parti della bici, che se si rompeva doveva essere riparata dagli stessi atleti).

 

Proprio dove si interruppero i sogni del bretone, i corridori passeranno nell’ottava tappa, Fiuggi-Campitello Matese, 186 chilometri. Scendendo verso Isernia, i girini di oggi incontreranno i luoghi di allora. Il verso è lo stesso, da Rionero Sannitico verso la città molisana, la strada oggi è asfaltata, un tempo di ghiaia e buche. In una finì la ruota del transalpino, il mozzo si ruppe e il suo Giro finì. Il verso è opposto rispetto a quanto invece accadde dieci anni dopo. E’ il Valico del Macerone, tre chilometri terribili, con punte del 14 per cento, coltellate ai polpacci, fiato che scompare. E’ il 2 giugno del 1921, nona edizione del Giro: doveva essere la seconda di Costante Girardengo, divenne la prima di Giovanni Brunero. E’ ai piedi della salita che tutto succede. Il Campionissimo si tocca con un avversario, va a terra, si rialza pieno di escoriazioni, due costole incrinate e un polso fuori uso. Si rimette in bici, arranca in qualche modo sino in cima, si ferma, vuole salutare tutti, lo convincono a ripartire, lui risale in bicicletta, si arrampica sino alla cima del Piano delle Cinque Miglia, sopra Castel di Sangro, lì si ferma di nuovo, getta un’occhiataccia al suo direttore sportivo e traccia una croce sulla ghiaia: “Girardengo si ferma qui”, dice prima di ritirarsi. Il Macerone quest’anno sarà discesa, nessuna croce verrà tracciata nella polvere e la selezione si farà altrove, lungo l’ascesa di Campitello Matese, lì dove nel 1982 andò in scena una delle rincorse più spietate della storia del ciclismo: Mario Beccia in testa, che stacca i due compagni di avventura, Bernard Hinault che lascia il gruppo, raggiunge i primi inseguitori, stacca anche loro e recupera metri all’italiano. Ultimi metri, il foggiano a tutta, davanti, ma di poco, il francese che inserisce il rapporto più duro, si alza sui pedali, lo affianca e lo supera sulla linea d’arrivo. Beccia che guarda incredulo il francese. Il Tasso che conquista la rosa che porterà fino a Torino. Tutto il ciclismo racchiuso in poche centinaia di metri.

Di più su questi argomenti: