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L'utopia di un salario minimo europeo

Lorenzo Borga

Una soglia minima sotto la quale non sarebbe più legale pagare i lavoratori? Complicato anche a livello nazionale, tanto più per tutta l'Unione. Meglio puntare all'insieme delle politiche per il mercato del lavoro

“Lavoratori sfruttati di tutta Europa unitevi, non avete da perdere che le vostre catene”. Se Karl Marx tornasse in vita oggi, aggiornebbe la sua celebre esortazione, prendendo le parti dei lavoratori sfruttati. Leggendo i programmi di alcuni partiti politici italiani in vista delle elezioni europee sembra che la preoccupazione per la condizione dei cosiddetti “working poor”, persone che pur lavorando guadagnano redditi di sussistenza, non sia mai stata così alta. E questa è una buona notizia. Infatti, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico propongono un salario minimo a livello europeo: una soglia minima sotto la quale non sarebbe più legale pagare i lavoratori europei. In Italia se ne discute da alcuni mesi, ma ancora non è stato approvato alcun testo in Parlamento. Per questo, forse, alcuni partiti si intestano la battaglia a livello europeo per spingere la propria proposta anche su questo fronte. Tuttavia, non se ne parla solo in Italia: anche Macron, nella sua lettera aperta di alcuni mesi fa, scriveva della necessità di un salario minimo europeo.

 

L’obiettivo sembra quello di stimolare la convergenza delle economie dei paesi membri, per evitare il cosiddetto dumping salariale e limitare le delocalizzazioni, soprattutto verso l’Europa dell’Est. Eppure ci sono anche alcune differenze tra le proposte. Una salta subito all’occhio: se il Partito Democratico nel suo programma, come anche il presidente francese, propone un salario minimo “parametrato alle condizioni dei diversi paesi”, e quindi soglie diverse da stato a stato, il Movimento 5 Stelle non chiarisce invece il punto e Luigi Di Maio nelle sue dichiarazioni pubbliche sembra invece proporre un salario minimo unico, una sola soglia, per tutti i paesi europei. Poco dopo aver presentato il programma, Di Maio in televisione ha infatti affermato: "Se eliminiamo le discrepanze salariali, [...] le imprese italiane non dovranno più andare in Polonia per abbassare il costo del lavoro, in Bulgaria o in Ungheria, ma potranno avere a livello europeo un salario omogeneo per poter competere producendo in Italia a pari competizione". Questa versione della proposta è assai più complicata da introdurre e gestire, tanto che probabilmente dopo il 26 maggio non ne sentiremo più parlare.

 

Troppe differenze per un’unica soglia

La proposta di un salario minimo unico in tutta Europa sembra davvero impossibile. Le differenze di reddito tra i diversi paesi europei sono ancora enormi e sarebbe impensabile stabilire un’unica soglia che vada bene per tutti. Secondo i dati Eurostat del 2017, in cima alla classifica del reddito c’è il Lussemburgo, con quasi 100mila euro all’anno di guadagno medio per ogni abitante. La Germania si posiziona poco dopo, con più di 40mila euro, e poi ci sono il Regno Unito, la Francia e l’Italia (29.100 euro all’anno, in media), leggermente inferiore alla media europea. I paesi dell’Europa dell’Est invece sono in fondo alla classifica: Romania, Ungheria, Slovacchia, Repubblica ceca, Polonia compaiono tra gli ultimi 10 paesi per reddito medio. Le stesse differenze permangono anche tenendo conto del diverso costo della vita: sono quindi dovute ai diversi livelli di produttività e di sviluppo economico, che non possono essere modificati per decreto dalla politica. Il reddito medio dell’Est Europa è pari a solo un terzo di quello del blocco dell’Europa del Nord, mentre arriva al 60 per cento del reddito guadagnato nei paesi del Sud.

 

Le stesse differenze si possono riscontrare anche osservando le soglie di salario minimo, già adottato in 22 paesi membri, come mostra il grafico. Il Lussemburgo è ancora primo, con ben 2.071 euro al mese; poi a scendere troviamo Germania, Francia e Regno Unito attorno ai 1500 euro e – ancora – solo in fondo alla classifica i paesi dell’Est: Polonia, Ungheria, Romania, con salari minimi attorno ai 500 euro al mese. Anche qui le differenze sono enormi: in Bulgaria, ultima, la soglia minima è pari a poco più di un decimo rispetto a quella del Lussemburgo. La media europea è pari a circa 924 euro: se la proposta dei 5 Stelle è quella di istituire un unico livello minimo in tutta Europa la scelta potrebbe ricadere su questa soglia. Eppure si tratterebbe di un valore più alto rispetto a quello esistente per tutti i paesi europei orientali, in alcuni casi pari al doppio dei minimi esistenti. Addirittura, questo ipotetico salario minimo europeo sarebbe più elevato di quanto guadagna la metà della popolazione in Ungheria, Romania e Lettonia. Impensabile.

 

 

Una riforma simile non troverebbe mai consenso nelle istituzioni europee, per gli assai probabili veti dei paesi orientali. Se una soglia simile venisse introdotta, non solo perderebbero la loro competitività salariale rispetto agli altri stati membri (l’obiettivo di Di Maio), ma probabilmente un minimo così alto stimolerebbe nel breve periodo la disoccupazione, poiché le aziende non sarebbero disposte a pagare tanto i lavoratori, e poi una maggiore propensione al lavoro nero. Va anche detto che non sempre queste misure vengono rispettate: anche in Italia una parte dei lavoratori viene retribuita meno dei minimi previsti dai contratti nazionali. Con una soglia tanto alta è ragionevole che un fenomeno simile possa verificarsi anche con il salario minimo. Se invece la soglia comunitaria fosse posta a un livello più basso, lasciando comunque la libertà agli stati di stabilirne uno più elevato – come accade negli Stati Uniti – l’effetto sarebbe probabilmente minimo: chi oggi non ha introdotto un salario minimo – oltre all’Italia – sono i paesi del Nord, che non sono nostri diretti competitori per il settore manifatturiero. Inoltre, così facendo, non si annullerebbe comunque la differenza tra il costo del lavoro dei paesi ricchi e di quelli orientali, come propone il Movimento 5 Stelle.

 

A Est i salari minimi (relativamente) più alti

Se invece di un’unica soglia, immaginassimo un sistema che istituisca salari minimi in tutta Europa condizionati ai vari sistemi economici e livelli di sviluppo – come propongono Pd e Macron – dovremmo ammettere che i paesi dell’Est non sembrano rappresentare l’ostacolo principale. Tra i 22 stati che hanno già adottato un minimo salariale compare tutto il blocco orientale, mentre mancano all’appello – come già evidenziato – i paesi del Nord: Svezia, Danimarca e Finlandia. Per di più, secondo l’Ocse, i paesi orientali hanno stabilito dei livelli minimi più alti rispetto al resto del continente. In Romania il minimo raggiunge il 60 per cento del reddito mediano, in Slovenia il 58, in Polonia e in Ungheria il 54. Tutte percentuali superiori alla media europea. I paesi dell’Est sono anche quelli che hanno aggiornato maggiormente al rialzo i minimi negli ultimi anni, adattandoli all’aumento del reddito: dal 2014 il salario minimo è raddoppiato in Romania e Lituania, e aumentato rispettivamente del 40 e 30 per cento in Ungheria e Polonia. In realtà quindi non sono i paesi comunemente accusati di indurre le nostre aziende a delocalizzare a tenere bassi i salari attraverso ridotte soglie minime.

 

La contro-narrazione

Istituire un salario minimo è molto complicato, anche a livello nazionale. Il livello di reddito e il costo della vita variano in modo significativo da regione a regione, ma anche tra aree urbane, periferia e aree agricole. O ancora, i livelli di reddito si modificano, aumentando, nel corso della vita dei lavoratori. Non è semplice quindi stabilire un unico livello per ogni paese, figuriamoci per tutta l’Unione Europea. Tuttavia ragionare su un sistema comune di protezione salariale può essere importante. Ma l’ottica non può essere quella di limitare la competitività di alcuni stati membri: piuttosto l’obiettivo – differente non solo dal punto di vista retorico – può essere la convergenza economica tra i paesi europei, anche per disinnescare i flussi migratori interni all’Unione che preoccupano alcuni stati più ricchi. Oggi tuttavia i trattati europei non includono le politiche salariali tra le competenze delle istituzioni comunitarie.

 

Come hanno scritto alcuni studiosi, tra cui l’italiano Andrea Garnero, in realtà però la scelta della politica non si dovrebbe tanto concentrare sulla decisione di una soglia – unica o adatta a ogni paese membro – quanto più all’insieme delle politiche, in cui rientra anche il salario minimo, per il mercato del lavoro. Le soluzioni possono variare per il grado di importanza della contrattazione collettiva, per il livello di estensione dei minimi (settoriali, regionali, nazionali) e anche per le modalità tramite le quali i minimi sono aggiornati, in modo unilaterale o tramite la contrattazione. Ma soprattutto, bisognerebbe evitare di illudersi che tramite decreto – o in questo caso una direttiva – si possa stravolgere il sistema economico europeo.

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