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La gogna alla “Black mirror” esiste, gli sciacalli pure, ma il problema non è “il web”

Claudio Cerasa

Migliorare la propria reputazione distruggendo gli altri. Sarebbe bello e auto consolatorio sostenere che la tragica storia di Giovanna Pedretti sia colpa dei social. Ma l'indignato collettivo non è un meccanismo nato per caso ma un prodotto che arriva dalla quotidianità. E riguarda gli ingranaggi tossici del processo mediatico

Quando si vuole affermare un concetto forte senza sporcarsi eccessivamente le mani di solito si sceglie di utilizzare un’espressione in inglese per lanciare il sasso e nascondere rapidamente la mano. A volte le espressioni in inglese possono aiutare a evocare un concetto restando distanti dall’oggetto che si sta trattando. Altre volte le espressioni in inglese servono solo a sminuire il fatto di cui si sta parlando. La storia tragica di Giovanna Pedretti, titolare della pizzeria “LeVignole” a Sant’Angelo Lodigiano, trovata morta domenica sera dopo essere finita in un vortice di accuse per aver creato nientemeno che una falsa recensione su Google, è una storia che meriterebbe di essere inquadrata senza ipocrisie e senza scappatoie linguistiche, limitandoci cioè a tradurre in italiano un’espressione divenuta ormai tristemente patrimonio dell’umanità: shitstorm. Letteralmente: tempesta di merda.

La tempesta di merda contro Giovanna Pedretti è partita giorni fa dagli account social di una famosa influencer con milioni di follower che ha scelto di utilizzare la potenza di fuoco delle sue piattaforme per aggiungere un nuovo tassello al proprio prestigioso curriculum, al centro del quale vi è una tendenza innata a mettere i mutande i poteri deboli del paese nascondendo dietro alla scomodissima attività di debunker quella del costruttore di meschinità, e per svolgere un’operazione che va inquadrata per quella che è: prendere un ventilatore, azionare il motore contro il prossimo, assicurarsi possibilmente che il prossimo non abbia gli strumenti per difendersi, quindi far scivolare lentamente di fronte alle pale il maggior numero possibile di shit, rivolgere l’escremento verso lo sventurato di turno e pretendere infine che chi osservi la scena definisca ossequiosamente tutto questo giornalismo.

 

I più sofisticati hanno paragonato l’operazione svolta dai nuovi apostoli dell’indignazione collettiva a una famosa puntata di “Black Mirror”, “Nosedive”, durante la quale i protagonisti della puntata acquisiscono un punteggio sociale a seconda del tipo di esperienze quotidiane che riescono a condividere. Ma se ci si riflette bene, paragonare la vicenda della tempesta di merda contro Giovanna Pedretti a una puntata di “Black Mirror” rischia di far cadere tutti in un tranello pericoloso che sarebbe meglio schivare. E il tranello è evidente: considerare il mezzo, cioè internet, cioè i social, come il vero motore della gogna, delle meschinità e della distruzione della vita degli altri. Sarebbe bello e auto consolatorio sostenere che sia così ma tutti coloro che oggi vergheranno editoriali molto duri contro la fogna dei social, il delirio del web, l’oscenità delle piattaforme dovrebbero ricordare che il palinsesto offerto al pubblico dall’indignato collettivo non è un prodotto che i social hanno fatto cadere sulle nostre teste come un meteorite improvviso ma è un prodotto che nasce dalla quotidianità, che nasce della normalità con cui abbiamo trasformato in una prassi democratica, “debunking”, lo sputtanamento senza freni del prossimo, la trasformazione di un possibile responsabile di un fatto in un bersaglio da spolpare e da offrire in pasto senza paracadute al tribunale del popolo.

Il meccanismo della gogna veicolato dai social è lo stesso che l’opinione pubblica veicola da anni trasformando per esempio le veline delle procure in condanne di morte della reputazione del prossimo e la tempesta dentro cui è finita Giovanna Pedretti non possiamo dire che sia la causa della sua morte ma possiamo dire che sia parte di un mosaico più grande al centro del quale vi sono gli ingranaggi tossici del processo mediatico. E l’ingranaggio funziona allo stesso modo sia quando si trasforma un innocente in un colpevole da sputtanare sia quando si trasforma un piccolo peccatore in un  nemico del popolo: accendi il ventilatore, metti il motore al massimo e preoccupati soltanto di migliorare la tua reputazione distruggendo senza accortezze quella degli altri. E’ il cialtrodebunking, bellezza.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.