Black Mirror: video, gioco, scherzo

Mariarosa Mancuso

“Bandersnatch” e l’ansia interattiva della domanda: chi comanda la mia mente?

Cronaca fedele e veritiera di un pomeriggio trascorso a giocare con “Bandersnatch”, ultimo incubo progettato dalla premiata coppia Charlie Brooker & Annabel Jones di “Black Mirror” (l’idea dello schermo nero fa proseliti: la Saatchi Gallery di Londra lo ha adottato per la mostra “Black Mirror: Arts and Social Satire”). Giocare, guardare non rende l’idea. Subito dopo la spiega – spettatore, dovrai fare delle scelte, in fretta perché l’eroe della storia non può stare in modalità “e ora cosa succede?” per più di qualche secondo – dobbiamo scegliere i cereali, Sugar Puffs o Frosties. La mossa abbastanza innocua ricorda però che siamo negli anni 80, lo zucchero non era considerato letale. Pare abbastanza innocua anche la scelta della colonna sonora, Thompson Twins o una compilation personale con gli Eurythmics.

 

Fatta colazione e preso il bus con walkman e audiocassetta, il giovanotto Stefan cerca un lavoro, lo trova, stringe la mano al suo idolo programmatore di videogiochi, comincia a trafficare con un gioco interattivo tratto dal misterioso romanzo “Bandersnatch” del misterioso scrittore Jerome F. Davies – modellato a immagine e somiglianza di Philip Dick, se non per il dettaglio della moglie ammazzata. E comincia il delirio.

 

Possiamo scegliere tra LSD sì e LSD no – il giovanotto pare già abbastanza fuori di testa, quindi scegliamo “no”. Scopriamo che la libertà di scelta arriva fino a un certo punto: la droga psichedelica finisce lo stesso nella suo tazzone. Scopriamo anche un’altra cosa piuttosto sinistra: compiute certe scelte che conducono a brusche conclusioni (il ragazzo decide di lavorare da casa, esce una schifezza di videogioco, il critico stronca con frizzi e lazzi), “Bandersnatch” torna indietro, inquadra due televisori d’epoca, spinge lo spettatore a riprovarci. Una, due, tre volte: l’irritante andirivieni approssima a zero la voglia di palpitare per la sorte del giovanotto.

 

Il dilemma, a ogni bivio più impegnativo dei cereali, si pone per lo spettatore in questi termini: scelgo per il bene del personaggio (l’attore Fionn Whitehead ha la stessa aria spersa e fragile che aveva in “Dunkirk”) oppure scelgo per il bene dalla storia? Limitando le peripezie, al contrario di quel che farebbe uno sceneggiatore cinico e preoccupato di tenere la fine lontana dall’inizio, la storia si ammoscia.

 

Cambio in corsa. Cominciamo a scegliere per amor di complicanze, buttando le medicine nel cesso e cancellando l’appuntamento con la psicoanalista e litigando furiosamente con papà, in presenza di un massiccio posacenere che non vede l’ora di trasformarsi in arma del delitto. La mamma è morta in un incidente ferroviario, quando Stefan era piccolo e non si separava mai dal coniglietto – perfetto per condurre al finale “cambieresti il tuo passato?” (ce ne sono cinque, gli spoiler li trovate ovunque).

 

“Controllano le nostre menti”, svela il nerd capo, che aggiunge “c’è un codice, se ti concentri puoi sentire i numeri”. Il delirio diventa autoreferenziale, togliendo di mezzo l’ultima possibilità di appassionarsi alla storia. E anzi facendo sospettare che “Bandersnatch” sia uno scherzo architettato perché si parli tanto di Netflix (meglio che immaginare un Charlie Brooker seriamente convinto di migliorare l’arte del racconto). “Chi controlla le mie azioni e i miei pensieri?” implora il giovanotto. Sullo schermo compare la “N” di Netflix. Risposta esatta. Con pernacchia incorporata, indirizzata allo spettatore: la versione del videogioco che il critico non distrugge è la meno interattiva di tutte.

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