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Estate con Ester

Tutto è contro, eppure si deve pensare: tutto è possibile. Luci di Murgia

Ester Viola

Una commemorazione a reti unificate quella che si sta celebrando con la visione delle sue ultime interviste. Sfavillava a tal punto, coi pensieri e quei colori, che il cancro te lo scordavi

Come si fa a costruire un mondo più bello?
Ma che ne so.
Le ultime interviste di Michela Murgia – stanno passando centinaia di volte ovunque, è una commemorazione a reti unificate, è più viva che mai – sono come spettacoli. Ride, è piena di denti, rossetto rosso, in mezzo a vestiti strepitosi. Sono tutte di due o tre mesi fa. Siccome lei sfavillava, coi pensieri e quei colori di Piccioli, il cancro te lo scordavi. Te lo volevi scordare. Profonde, ma più allegre, quelle risposte le uscivano fuori e tintinnavano, sapete quando le parole hanno le risate impastate dentro. Ma quale cancro. E ridendo raccontava che ora è il momento di fare tutto, dire tutto, partire sull’Orient Express. Tanto che fanno, mi licenziano? Che può succedere, che altro? Era già successo il disastro, quindi.

E così ti mettevi a sentire a leggere queste interviste, interviste in punto di morte o quasi. E’ un modo sconsiderato di mettersi seduti a fare il pubblico, da spettatore un poco atterrito, un poco orribile ma affamato e in salute concedi un insolito grado di attenzione perché ti aspetti che dall’altra parte, quelli che stanno male, abbiano tutte le verità, tutte le soluzioni, tutte le luci. E infatti ce le hanno. Le risposte, le speranze, le cose che servono per vivere ai vivi. Ognuno nel pubblico prenda la sua. Io prendo: accorgersi di una felicità è una forma di intelligenza. Quando il sottouomo zoppicante la vede, perché gli passa accanto, una felicità. Miracolo.

Non ci pensavo proprio: noi le pretendiamo in fronte, quando arrivano, le felicità. Invece verrà dall’alto, la felicità, sicuro. Su ali dorate, elegantissima. E ci piace moltissimo contare sul fatto che quella felicità si poserà giusta giusta sul desiderio che l’aveva chiamata.  Intelligenza è un’autodiagnosi di felicità, ha ragione Michela Murgia. E quando la trovo una definizione più convincente di questa. Penso a tutte le domande più fesse che ci facciamo.
Quando finisce una volta per tutte? Quand’è che andrà meglio – non benino, non bene, non in modo passabile – quand’è che tornerà tutto a posto, cioè come dico io, cioè splendido? Dipende. Te ne accorgi, se succede? No.

Mettersi e provare a essere felici è la cosa più facile da fare, e per questo uno la fa. Poi la cosa più facile diventa fingere di aver mancato di poco, vivere un po’ più disillusi, o pure gravemente repressi. Ma comunque si procede, perché il paese della cuccagna sarà davanti, da qualche parte, andiamo. Michela Murgia ha detto che c’è un altro modo, non guardare avanti ma guardarsi accanto. 

Salvatele da qualche parte, quelle interviste. Rileggetele. Non sperate di trovarci consolazioni a buon mercato, compatimento, malinconie, profondità strutturate nell’analisi dei guai della vita, cure che siano altro da diventare un implacabile spirito aguzzo contro questo male di stare al mondo. A volte è l’ovosodo di Virzì, altre è quella pena di cui parla Céline. “E’ come una donna mostruosa, la pena. E tu te la sei sposata. E allora forse è meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita, perché è chiaro che non la puoi accoppare”.
Sarà impressione, ma Michela Murgia la mette in un modo che sembra meno faticoso. Questa tragedia di occasioni mancate, questo inferno che formiamo stando insieme non dev’essere per forza una tragedia. La faccenda del farcela pare più divertita che amara – è il viaggio al termine di una notte in cui te la potresti pure spassare.  Felici i felici, dice quell’altro libro, e dice pure Borges. Felici quelli che ci nascono, quelli che se ne accorgono, quelli che arrivano alla felicità per colmo di jelle, gli ex disperati, che sono i cuori più contenti di tutti, basta un biscotto caldo.

Tutto è contro, eppure si deve pensare: tutto è possibile. Ciao Michela.

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