Una scena di California Poker (California Split), film del 1974 diretto da Robert Altman 

Una giornata a Las Vegas, dove il poker è l'attività più nobile che esista

Giuseppe Pastore

Pizza, emicrania e più di dieci ore di gioco al tavolo delle World Series of Poker che si tengono dal 30 maggio al 18 luglio ai Casinò Paris e Horseshoe. Dove tutto è artificiale, di un kitsch che fa il giro e diventa sublime. E dove scopri che il Texas Hold'Em è uno sport

In quella spaventosa e spettacolosa cattedrale del vuoto che è Las Vegas – dove coppie di ricchi sprovveduti si mettono in fila per godere del privilegio di un giro su un Canal Grande finto a bordo di una gondola finta scortati da un gondoliere finto, di nemmeno lontane origini italiane, e per questo sborsano volentieri 156 dollari verissimi – mi è capitato di vivere una delle giornate più allucinanti della mia vita.

  

Non vi tedierò con le regole del Texas Hold’em e i suoi rigorosi princìpi matematici, e avrò compassione di chi lo derubrica a sciocco e pericoloso zucchero filato per ludopatici; mi limiterò a calarmi e calarvi nel mood a partire dal contesto, le World Series of Poker in programma dal 30 maggio al 18 luglio ai Casinò Paris e Horseshoe di Las Vegas, collegati da una labirintica rete di corridoi punteggiati da esercizi commerciali, progettata apposta per evitare che gli intontiti visitatori si espongano alla luce naturale, specialmente nell’estate del Nevada che può essere ferale. E allora che sia tutto artificiale, posticcio, di un kitsch che fa il giro e diventa sublime, l’estasi del pecoreccio come teorizzava Tommaso Labranca. Ma dicevamo, il poker.

  

Il poker è l’attività ricreativa più nobile che si possa fare in città, certamente più formativa delle slot luminose assaltate da un esercito di tossicodipendenti a ogni ora del giorno e della notte (concetti che a Las Vegas tendono a confondersi). I tornei sono decine e partono con la frequenza delle corse di una metropolitana: io ne ho scelto uno da 250 dollari di buy-in, su consiglio dell’amico Riccardo Trevisani che è un habitué dell’ambiente. L’ho scelto, in realtà, just for fun, nella beata inconsapevolezza dei riti e delle dinamiche di un evento del genere. Un evento minore (letteralmente side event), sia pure col marchio ufficiale WSOP, eppure capace di radunare 172 partecipanti tra cui il sottoscritto, tutti pronti dalle 13 ad affrontare un’intera giornata di poker, qualche migliaio di mani punteggiato qua e là da brevi pause-bagno e rifocillamenti vari, a caccia di un trancio della pessima pizza pepperoni che fanno da queste parti. Tutti pronti, tranne uno.

 

Un bellissimo e grottesco film del 1969 di Sydney Pollack, intitolato “Non si uccidono così anche i cavalli?”, raccontava l’avventura di un gruppo di disperati alle prese per denaro con una maratona di ballo a eliminazione diretta, nell’America della Grande Depressione. Nulla di così cruento e di così deprimente: giocare a poker a Las Vegas è una delle cose per cui vale la pena vivere, per non parlare dell’umanità con cui ti trovi a dividere il tavolo (un arzillo rounder più vicino agli 80 che ai 70, appena gli ho rivelato che ero italiano, ha iniziato a magnificarmi il cimitero di La Spezia: “Uno dei più belli che ho mai visto in vita mia”). Nulla di così cruento, a meno di non sottovalutare i tre aspetti-chiave della faccenda, da me drammaticamente cannati in pieno: 1) la temperatura da ghiacciaia della poker room, inferiore persino a quelle rasoterra delle altre sale del casinò; 2) a meno di non abbandonare il tavolo, la difficoltà ad alimentarsi e dissetarsi se non hai denaro cash sottomano, e io – shame on me – non ne avevo; 3) la concentrazione che devi importi, volente o nolente, se vuoi tentare di fare bella figura o perlomeno non buttare via i tuoi 250 dollari nel giro di venticinque mani. Il che, banalmente, fa del poker uno sport: servono allenamento, preparazione fisica e mentale, attitudine alla competizione, tigna. E io stavo anche andando bene, piuttosto bene, quando sono stato assalito da una specie di vertiginoso malessere mai provato prima, un senso di debolezza, nausea e inappetenza da tamponare con l’Oki e col Gatorade rimediato dai miei amici e compagni di viaggio. E in tutto ciò ero ancora in gara, e più l’emicrania mi perforava le tempie più mi arrivavano carte sempre migliori, KK AQ 99 QQ, e i miei impacci, i miei rilanci sbagliati, i miei call al posto dei raise dovevano risultare insopportabili ai miei avversari, che avevano davanti agli occhi lo spettacolo penoso di quest’italiano pallido come un cencio, ripiegato su se stesso, bofonchiante termini sbagliati e incomprensibili, con una montagna di chips davanti.

  

Poi mi sono ripreso, e ho continuato incredibilmente a vincere mani con una logica impeccabile, insomma senza sculare come si lamentano i giocatori scarsi in cerca di alibi alle loro disgrazie. A Las Vegas non sai mai davvero che ore sono, e se sei seduto a un tavolo da poker per dieci ore consecutive perdi facilmente anche la cognizione dei giorni e dei mesi. Cambiano le facce, gli accenti, gli stack sotto il naso; da 25 si rimane in 20, poi in 15, poi in 10. L’aumentare vertiginoso dei bui rende il torneo simile a una sparatoria, un crepitare di all-in dove tutti implorano in silenzio che gli altri abbandonino la mano (eppure vincere un all-in a Las Vegas ti pervade di un senso di onnipotenza come Robert Downey Jr. nel finale di “Iron Man”). Arrivi al tavolo finale, ti accorgi che gli altri sono stanchi quanto te, qualcuno si insulta, qualcuno ti insulta, altri schiamazzano. Entri in the money, cioè vinci dei soldi, tutti applaudono, per il 15 per cento dei dannati (25 giocatori su 172) la nave arriverà in porto. Infine perdi, perché a Las Vegas prima o poi tutti perdono: io ho perso andando all-in con AK, venendo chiamato da uno con AJ e schiantandomi sul fatale Jack al flop (scusate i tecnicismi). Era quasi mezzanotte, oltre le dieci ore di gioco. Ho raccolto i miei quattro stracci, la felpa spiegazzata e il tè Pure Leaf al lampone pietosamente raccattato durante una pausa, ho ricevuto dalle mani del floor (l’arbitro di sala) il cartoncino rosa con cui andare a riscuotere i 1.032 dollari di premio, rigorosamente cash come prevede la tradizione quaggiù nel Nevada. E mi sono sentito stanchissimo e felice, anzi è meglio dire ebbro, come sono ebbri di qualcosa tutti quelli che incontri sulla Strip a Las Vegas. Come uno che ha appena concluso incolume la prima maratona della sua vita e giura a se stesso che non ce ne sarà una seconda. Come quello splendido libro di David Foster Wallace in crociera, ho vissuto la mia cosa divertente che non farò mai più.

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