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L'analisi

Altro che millennial e Gen X schizzinosi: le grandi dimissioni dei boomers

Giulio Silvano

Lo studio dell’Università della British Columbia ci mostra che negli Stati Uniti, oltre 2 dei 3 milioni e mezzo di persone che hanno lasciato il lavoro senza trovarne un altro sono i nati tra il 1946 e il 1964

Con la pandemia molti hanno assaporato il gusto dello smart working. Stare in pigiama davanti al computer senza sorbirsi i pendolarismi sui regionali in ritardo, senza pranzi aziendali nelle mense e riunioni che potevano essere sostituiti da un’e-mail. Secondo un sondaggio di Gallup del 2022, l’85 per cento delle persone dipendenti non ama il proprio lavoro. La temporanea vita pandemica ha portato molti a richiedere migliori condizioni lavorative, in primis una maggiore flessibilità o una paga migliore, e a parlare attivamente di work-life balance. Per chi non ha trovato quello che cercava la soluzione è stata una: dimettersi. Si parla di great resignation, di grandi dimissioni, fenomeno ancora in corso. Negli Stati Uniti nel 2022 più di 40 milioni di persone hanno lasciato il proprio impiego. In Italia, nel primo semestre dell’anno scorso, si sono dimesse volontariamente più di un milione e mezzo di persone, un aumento del 22 per cento rispetto al 2021. 

Fino a ora questo fenomeno ci ha fatto discutere dei millennial (nati tra il 1982 e il 1995, circa) e della Gen Z (nati tra fine anni ’90 e il 2012), noti anche come Zoomers, accusati di essere troppo schizzinosi e di sprecare i soldi in toast all’avocado e frappuccini al latte d’avena invece di investire nel mattone o a Wall Street. E di essere troppo interessati al benessere psicofisico sul luogo di lavoro, o di criticare troppo aspramente nepotismi e gavette. La coscienza delle proprie condizioni di infelicità, unite alla temporanea illusione delle gioie della vita casalinga causata dal Covid, avrebbero portato alcune persone a pensare che a dare la dignità all’uomo non sia necessariamente il lavoro, ma il tempo libero; un po’ una riscoperta di quella massima di Oscar Wilde: “Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare”.

Uno studio dell’Università della British Columbia ci mostra che il dito è stato puntato sulla generazione sbagliata. Se si guardano i numeri ufficiali degli Stati Uniti, oltre 2 dei 3 milioni e mezzo di persone che hanno lasciato il lavoro senza trovarne un altro sono in realtà i baby boomer. Le persone nate tra il 1946 e il 1964 si sono dimesse proprio perché, grazie alla costante impennata del mercato immobiliare, hanno venduto le proprie case a prezzi molto alti, anticipando l’età pensionabile. E’ vero che millennial e zoomer lasciano il proprio lavoro – secondo linkedIn nel 24 per cento dei casi entro i sei mesi dall’assunzione – ma ne cercano, e trovano, un altro, quasi sempre. A volte saltellano tra un’azienda e l’altra, fino a selezionarne una che possa soddisfare le loro richieste. La possibilità di restare in smart working anche senza emergenza sanitaria risulta una delle prime richieste, e così i nomadi digitali possono lavorare da Bali o da Lisbona per aziende newyorkesi e californiane (parliamo di mestieri che si fanno davanti a un computer). Altre volte si cambiano ambito e mansioni, o ci si mette in proprio, ma non si esce dalla forza lavoro. Avvocati che si aprono studi di ceramica, accademici che aprono pasticcerie veg, graphic designer che si dedicano all’allevamento dei lagotti da tartufo. Società liquida 1.0 e retorica messa in pratica del “seguire la propria passione”. 

Senza rendite, con due grosse crisi finanziarie mondiali sulle spalle, queste generazioni vivono spesso in affitto, e devono trovare un’alternativa di guadagno, problema che adesso si sta trasformando in attivismo. C’è chi lavora più di prima perché, con l’aumento dei prezzi degli affitti, per esempio in città come San Francisco o New York, si cercano secondi o terzi lavori per evitare di cambiare quartiere o stato. I boomer invece, spesso proprietari, hanno capitalizzato su case acquistate decenni prima a prezzi decisamente inferiori per poter evitare di rientrare nella forza lavoro. Secondo lo studio canadese, nelle città americane dove i prezzi delle case sono aumentati in un anno di almeno il 10 percento, è salito notevolmente il numero di over 65 che ha smesso di lavorare rispetto a città in cui il mercato immobiliare è rimasto più stabile. Quindi il boom dei prezzi delle case spiegherebbe in parte il fenomeno della great resignation. E dimostrerebbe che troppo spesso millennial e Gen Z vengono utilizzati per spiegare fenomeni di cui non sono la causa.

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