Sam Moghadam Khamseh via Unsplash 

Quegli adolescenti invecchiati che con il Covid hanno visto un mondo svanire

Matteo Marchesini

Oggi ci è tornata la memoria. La pandemia forse passa, le bombe echeggiano lontane. Eppure la vita virtuale di prima è finita; e per i miei coetanei di 30-40 anni, è finita proprio quando non si potevano più rimandare i conti con la maturità. Per lo choc alcuni si sono ammalati. Anche gli ipocondriaci

Oggi ci viene spontaneo definire vita virtuale non solo quella del web, ma anche la condizione sperimentata da molti di noi negli scorsi decenni. In un limbo speciale è cresciuta la mia generazione, la cui biografia è divisa a metà tra XX e XXI secolo. È la generazione che si era scavata una nicchia nel morbido declino italiano, e che di colpo, al confine fra i trenta e i quarant’anni, si è trovata davanti una catastrofe planetaria. Troppo a lungo avevamo immaginato distopie, e insieme relegato la tragedia alla storia dei nonni, per non arrivare all’appuntamento impreparati. Nel 2020, ragionando sullo smarrimento provocato dall’irriducibilità della pandemia agli schemi ideologici correnti, citavo un amico che per stigmatizzare l’inattualità di un filosofo lo aveva paragonato a “quelle cose vintage della nostra infanzia, tipo la bomba atomica”. Chissà perché vintage, avevo pensato: le bombe esistono ancora. Ma ciò che non occupa più il discorso pubblico con una forte carica simbolica – nel caso: la Guerra fredda – viene dimenticato.

  

Oggi ci è tornata la memoria. La pandemia forse passa, le bombe echeggiano lontane. Eppure la vita virtuale di prima è finita; e per i miei coetanei, è finita proprio quando non si potevano più rimandare i conti con la maturità. Letteralmente da un giorno all’altro, nel marzo 2020, innumerevoli adolescenti invecchiati hanno visto svanire un mondo tutto potenzialità, tutto allusività, tutto donne o uomini-schermo – quel mondo di umori perennemente bipolari, e di progetti famigliari eternamente rimandati, in cui sembrava non potesse succedere niente di rilevante ossia di vero, definitivo, irreparabile. “Come fai col sesso?” mi ha chiesto in quel marzo d’isolamento una coetanea che come me ha stiracchiato fino ai 40 la sua adolescenza vaga, letteraria, seduttiva. Ora questa amica ha un bambino: per lei il cambiamento del mondo ha coinciso con l’inizio della stabilità. Per altri le cose sono andate altrimenti.

 

Non ho mai visto tante persone ammalarsi come negli ultimi due anni; e non dico di Covid, ma di tumori e di patologie gravi spesso legate al sesso, alla riproduzione. È capitato anche a me, proprio mentre dopo un decennio di caotici flirt accettavo una specie di matrimonio. In tempi di superstizione, mi è apparso subito un segno: Amore e Morte si alleavano per confermarmi che non ero adatto alla vita adulta. Dunque, da una parte gravidanze, dall’altra sterilità e cellule impazzite (nel tentativo di ringiovanire?). Tutte le storie finiscono con un bambino o con la morte, ha scritto Gospodinov. La mia generazione senza iniziazioni, e forse per questo afflitta da sensi di colpa indefiniti quanto vasti, sembra aver trovato negli anni 20 la sua ordalia. Fino al 2020, molti di noi avanzavano in un’assenza di attriti che pagavano con scongiuri, rimorsi, piccoli malanni psicosomatici, e magari col fallimento pilotato di un’analisi. Era un buon prezzo, per avere in cambio una realtà circonfusa di un alone erotico da teenagers, e dell’attrattiva di un perenne inizio. Ma durante la pandemia quest’attrattiva torbidamente adolescenziale è scomparsa. Tutto nei rapporti si è fatto più netto, asettico come l’Amuchina. Intorno a me, non più frivoli, i trenta-quarantenni cambiavano casa, riprogettavano il lavoro, si curavano, facevano figli. Alle cene con gli amici ci si guardava con saggia tristezza, parlando a monosillabi. “Siamo diventati vecchi di colpo?” ci si domandava. “Sarà la famosa nebbia cerebrale? O solo adesso ci vediamo come siamo davvero?”. Ai più forti lo choc è servito per raggiungere la maturità in un lampo; gli altri, non sapendo rimpiazzare quella vaghezza artificiosa che era diventata tutt’uno con la loro vita, sono apparsi a un tratto puerili; e forse per questo alcuni si sono ammalati.

    
Quando la realtà diventa indecifrabile, si prova a spiegarla con un mito. Giorni fa, con un amico come me malato, ci si chiedeva se nelle generazioni passate i tumori fossero così frequenti. Dopo aver evocato l’inquinamento e il troppo junk food, consumato nella certezza di sorti se non magnifiche almeno innocue e progressive, ci siamo ricordati dei “destinati a esser morti”, cioè dei bambini che senza la scienza medica del tardo ’900 non sarebbero sopravvissuti, e che secondo Pasolini si sarebbero portati dietro un’ombra funebre. Rientravamo nel numero? E chi si porta dietro quell’ombra può ancora sopravvivere, in un mondo in cui si affacciano sfide ben più dure che infanzie da piccoli principi in scarpe ortopediche, erasmus e semifidanzamenti senza fine, allergie stagionali e corsi di yoga? Ma la battuta che meglio condensa il cambio d’epoca è venuta da un altro amico. “Quando mi hai detto della diagnosi non riuscivo a crederci” ha confessato. “Matteo è ipocondriaco, mi dicevo, ergo non può ammalarsi”. Ecco, per molti miei coetanei gli anni 20 e l’improvviso raggiungimento dell’età adulta sono questo: scoprire che si ammalano anche gli ipocondriaci, e che l’equivoco limbo in cui si mischiavano finzione e verità è sfumato una volta per sempre.

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