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Ho ucciso il mio io digitale. Storia di una liberazione dai social

Berta Isla

Se la tua immagine online diventa così perfetta da non riuscire più a starle dietro, cancellala.  Un radicale e repentino cambiamento nell'universo delle relazioni e uno strano ripristino del criterio della selezione

E’ passato quasi un anno da quando, in maniera piuttosto repentina, ho deciso di sbarazzarmi dei miei profili sui social network. Contrariamente a ogni mia aspettativa, non solo sono sopravvissuta: come si dice dopo i migliori primi appuntamenti, sono stata molto bene. Non ne ho mai sentito la mancanza – neppure un giorno – né mai ho avuto il desiderio di resuscitare i miei account. Sembra impossibile (a me per prima) eppure è così. 

Per cancellarsi da Instagram bisogna accedere al sito dal browser. Cancellarsi da Facebook è più semplice: basta l’applicazione sul cellulare, si può fare anche da lì. Facebook l’ho eliminato appena uscita dallo studio del mio psicologo. In piedi in mezzo a una strada che costeggia Villa Torlonia, era una giornata splendida, ricordo, una di quelle giornate in cui Roma esplode di bellezza – la temperatura ideale, il cielo pantone blu cielo di Roma in quelle giornate lì. Il tempo che contro ogni legge della fisica rallenta e si stiracchia, diventa morbido. Davanti al motorino, casco già in testa. Di getto, ho spazzato via il mio profilo decennale. Instagram l’ho invece eliminato qualche ora dopo, dal pc del mio ufficio, non prima di aver fatto un umiliante passaggio sul sito di Salvatore Aranzulla – confermando la mia inabilità pre-digitale. Silenzio, non sono più sui social – e forse, quindi, proprio non sono più. Cala il sipario su un’identità digitale che (perdonerete l’immodestia) continuo a pensare fosse glam, divertente e piena di arguzia. Un’identità che tanto successo aveva prodotto nella mia bolla, e alimentato il mio fragile ego da millennial, spazzata via in meno di dieci minuti. 

 

Nei giorni successivi al folle gesto ho raccolto reazioni variegate, che a posteriori ritengo di poter sostanzialmente raggruppare in tre grandi categorie.

 

Il primo gruppo di persone, connotato da un allarmismo del tutto irrazionale. Accomunando la chiusura dei profili social alla morte tout court o ad altri eventi di carattere luttuoso, molte persone mi hanno chiamata – o, in caso non avessero il mio numero mi hanno fatto trasmettere da altri l’accorato messaggio – per sincerarsi del mio stato di salute. Il secondo gruppo, quello dei curiosi, che – con reazioni immagino non dissimili a quelli dei tabagisti, per dire, o degli alcolisti, per dire – hanno continuato per diverso tempo a volerne parlare, a discuterne, ma come hai fatto, mi dicevano questi qui del secondo gruppo, come sei riuscita a liberarti dalla dipendenza. L’ultimo, il girone dei polemici, che ogni spiegazione è questionabile, che sui social non è obbligatorio mettersi in mostra, sui social si può stare anche senza pubblicare niente, e i social hanno anche tanti lati positivi, per esempio Facebook ha bonificato l’Agro Pontino e costruito l’Eur.   

Ad ogni modo, per pigrizia, per evitare ripensamenti, o per la mia attitudine da prima della classe ad avere sempre pronta una spiegazione, mi sono infine risolta a confezionare una risposta che apparisse sensata, possibilmente intelligente, non condiscendente rispetto a un mezzo di cui ho goduto e persino abusato per anni, e che per anni mi aveva assicurato un modesto successo, e soprattutto che non mi facesse passare come una mitomane con scarsa percezione di sé (avevo bisogno di ritrovare la mia privacy – Berta mia, abbi pazienza, ma chi sei, Meghan Markle?). 
Dunque, mi sono stufata, ho detto, i social network mi hanno annoiata. 

Ed è con questa bugia bianca che è iniziata la mia estate 2022. La prima, dopo almeno un decennio, senza Facebook né Instagram a fare da testimoni alle mie vacanze, né ai giorni agonizzanti in cui si avvicinavano le vacanze – quei giorni, diciamolo in tutta onestà, in cui una sola foto dell’amica sposata bene, già stanziale al mare dai primi di giugno, è più che sufficiente a mettere in crisi tutta un’architettura di scelte di vita. La prima estate, diciamo pure questo, senza il senso di imbarazzo per i parenti che postano le card di auguri di Ferragosto. La prima, con il cellulare dimenticato chiuso in borsa sotto al sole per ore. La prima estate libera dalle estenuanti negoziazioni sulla pubblicazione di foto o stories di gruppo in cui si è venuti tutti di merda, tranne l’amico che le vuole pubblicare – questa, la spiegazione scientifica del fenomeno della moltiplicazione di foto di gruppo quasi identiche su diversi profili, e questa la dinamica con il punto di caduta negoziale tipico: pubblicala ma almeno non mi taggare. Uno scempio, una dinamica un po’ umiliante, una gran perdita di energia. 

 

Iniziava con una bugia biancaun radicale e repentino cambiamento nel mio universo relazionale e uno strano ripristino del criterio della selezione: senza la scusa di un commento o di una risposta alla story, mi gettavo improvvisamente nel mondo in cui comunicare presuppone il percorso, tutto volontaristico e non automatizzato, del: pensare a qualcuno per qualsivoglia ragione - prendere il telefono - mandare un messaggio. Nei casi più estremi, fare una chiamata (amiche, sorelle, concittadine, nota a margine: quanto ci piacciono gli uomini che esordiscono nelle nostre vite con una telefonata, in luogo dell’usurata tecnica dei cento like cripto-ossessivi?). Personalmente, non ero più abituata a questa esigenza di cercare ed essere cercati o, specularmente, ignorare ed essere ignorati: devo dire, in tutta franchezza, che non è affatto male. 

Come sempre però, la verità non è che stia mai chiusa tutta dentro una bugia bianca. La verità è quasi sempre una materia densissima anche a fronte di cose piccole, apparentemente insignificanti, come è la scelta di avere o meno una identità social. La verità era più complicata di una posa radical chic (alle quali pure non sono immune) e aveva a che fare, perlomeno nel mio caso, con uno strano senso di frustrazione. La verità è che, nel corso dei miei anni di brillante esistenza digitale, ero riuscita a creare una messinscena piuttosto dettagliata che era infine diventata più grande e più forte di me – era diventata gigante, questa messinscena, e in qualche modo bellissima, e io, che avrei voluto somigliarle, almeno un po’, soffocavo, minuscola e meno felice sotto di lei. 

 

Quegli strumenti che per anni mi erano sembrati un canale fondamentale attraverso il quale esprimere la mia personalità avevano in realtà creato un mostro a me estraneo, e di me, per molti aspetti, assai migliore – e così un ennesimo modello, il più crudele, al quale inutilmente anelare. Un ennesimo perimetro nel quale mi ero io stessa scientemente rinchiusa: il mio denudamento social era del tutto volontario, e ciononostante, all’improvviso, radicalmente intollerabile.
Mi ci sono voluti dei mesi per dare un contenuto più preciso e ordinato a questo senso di costrizione autoimposta, e c’è voluto del tempo perché io comprendessi a quali bisogni emotivi rispondesse il mio denudamento volontario, e perché io fossi disposta a soddisfare questi bisogni a un prezzo così caro. E poi perché una persona come me, storicamente frustrata dalla ricerca della perfezione, si fosse incatenata a un mezzo che amplificava questa inclinazione fino al confine della patologia. (Per inciso, sto rubando, senza vergogna e a piene mani, parole del filosofo Byung-Chul Han – lo segnalo più che altro per onestà intellettuale, e solo residualmente per l’improbabile ipotesi che mi stia leggendo in traduzione seduto in poltrona nel suo studio berlinese). 

 

In quel periodo lessi un saggio molto interessante di Michele Spaccarotella (il quale mi perdonerà, spero, per la semplificazione) che indagava in maniera per me sorprendente l’universo delle relazioni nell’epoca della rivoluzione digitale. Ricordo un dato che più di altri mi colpì e, per così dire, accese la luce, e cioè che negli ultimi anni le persone tendono a rivolgersi ai chirurghi estetici con l’obiettivo di somigliare quanto più possibile alla propria immagine così come risultante dall’applicazione di un filtro di bellezza utilizzato sul social network. Desiderano, cioè, somigliare – più che a un divo del cinema o a un’immagine ideale – all’immagine più bella e più perfetta di sé stessi, migliorata da una tecnologia semplice. Cercano, cioè, di ripararsi in un’immagine dalla bellezza rassicurante e convenzionale, alla portata di tutti e perciò stesso universalmente accettata. 

 

Trovai questo dato sconcertante, e al contempo perfettamente logico: dall’immagine fisica, alla propria vita come complesso di fatti, immagini e rapporti – rimossi i difetti, rimosse le imperfezioni, rimosse persino le stranezze e le peculiarità, rimosse piccole e grandi stramberie, il servizio offerto dai social network è quello di fornire rifugio nella versione igienizzata e migliorata di ciascuno di noi. In un mondo che utilizza uno schermo come proprio specchio, e che in questo specchio si osserva ossessivamente, le persone hanno la possibilità di costruire la versione più infedele e migliorata di sé, per continuare a guardarla, per ottenerne conferme: Narciso, se solo sapessi queste diavolerie moderne. 

E io a questo utilizzo non avevo fatto eccezione, nel corso degli anni – anzi, a ben vedere con il mio avatar non avevo fatto altro che questo: costruito, proposto e mandato avanti un’immagine di me del tutto parziale, e falsata – la mia vita al suo meglio, fatta di bei viaggi, bei vestiti, senso dell’umorismo e frasi a effetto, la mia vita fatta di cene a Capalbio e trasferte di lavoro in alberghi di lusso, di entusiasmo per i traguardi raggiunti, per i miei colleghi, una vita di uomini che ti son piaciuti, una vita wonderful. Una vita, diciamo, scremata dalle sveglie all’alba e dalle occhiaie, dai libri brutti, dalle nottate al computer a lavorare, dai tessuti che inesorabilmente cedono alla gravità, dalla paura della solitudine, dalla frustrazione, dal fallimento, dall’invidia, dalle cene con gli spinaci surgelati, dalla sindrome premestruale, dal terrore di sbagliare, gli obiettivi falliti, i sogni infranti, tutte le volte che mi sono sentita stupida (e forse lo sono stata), le volte che mi hanno trattato come una stupida (senza che io lo meritassi), dal taglio di capelli sbagliato che con gli altri ci si scherza su ma in realtà a quasi quarant’anni ancora ti ci viene da piangere, dai segreti della cabina elettorale, le piccolezze e le meschinità, gli errori maldestri, le bugie inutili, le banalità. 

Mi canta in testa una poesia di Wislawa Szymborska, Scrivere il Curriculum, che a un certo punto dice così:  
E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.

 

E io avevo selezionato fatti, raccontando viaggi, delineato la mia appartenenza a un certo mondo, mostrato gli uomini con cui ero stata e non quelli che mi avevano spezzato il cuore. Avevo proposto per anni una narrazione che certamente a grandi linee poteva somigliare alla mia vita reale e che con essa condivideva alcuni punti di contatto – ma con la grande differenza che la narrazione era molto più interessante, molto più di successo, molto più allegra della vita reale. Avevo scritto senza parlare mai con me stessa, avevo scritto la mia storia come se mi fossi evitata. Per molti anni, i miei social network erano stati il mio curriculum vitae.  

 

Ricordo che un giorno un mio amico mi raccontò che suo fratello – che conosco poco, e principalmente conoscevo attraverso i social – parlando di me, mi aveva definita una donna difficile, una donna ad alto mantenimento (splendida espressione mutuata dall’avanzatissima cultura anglosassone). Una che quant’è difficile avercela in casa, con tutti quei capricci, con quelle arie da superstar. 

 

Per un attimo rimasi in silenzio, con una strana sensazione di estraneità. Si dà il caso che fosse quello il periodo della mia vita in cui, da poco separata, passavo molto del mio tempo aggirandomi in lacrime come una prefica, scoppiando a piangere a intervalli regolari per questioni banali, trovandomi a volte la notte da sola in casa o in studio a esplodere in grida rabbiose. A casa mia, che improvvisamente mi trovavo a gestire da sola, ogni giorno, ogni-singolo-giorno, un oggetto a caso smetteva di funzionare o mi abbandonava esausto – il divano-letto, un elettrodomestico, il maledetto internet – gettandomi ogni volta in un rinnovato, profondissimo, sconforto, aprendo delle voragini di sofferenza. Era quello il periodo in cui mi sentivo brutta, vecchia, e ogni giorno, ogni-singolo-giorno, infelicitavo gli amici più intimi e sfortunati mandando in onda il mio podcast sulla fine di ogni speranza, futuro di solitudine, tempo per la filiazione scaduto, pensieri di morte. Soprattutto era quello il periodo in cui venivo lasciata da tutti gli uomini con cui uscivo – per “tutti”, intendo una percentuale prossima al cento per cento – molti di loro frequentati a lungo sui social prima di passare alla vita reale. Ero triste, mi sentivo vecchia, la gestione della mia depressione al lavoro era sfiancante, e inanellavo fallimenti sentimentali con coglioni di ogni età, razza, colore e religione. 

Di che donna stava parlando il fratello del mio amico?  Certamente, chiunque fosse, era molto più fortunata di me. 

E a dire il vero è stata proprio questa la scoperta più vertiginosa, quella che ho fatto solo allontanandomi dagli altri e avvicinandomi timidamente a guardarmi più da vicino: il mio carceriere, il mio recinto e la mia prigione non era mai stato il confronto con il resto del mondo, virtuale o reale che fosse, bensì il mio avatar digitale senza macchia che io stessa avevo creato con tanta dovizia. Un’immagine che io stessa avevo creato e che improvvisamente mi aveva fatta sentire scomoda, che iniziavo a percepire come nemica, che mi schiacciava con la propria superiorità. 

 

Ero io stessa, nella mia versione patinata, a impormi uno standard prestazionale con il quale, semplicemente, la realtà non poteva competere: la donna che sui social vinceva, raccoglieva seguito, successi e consenso, guardava dall’alto a grande distanza la donna che, nella realtà, si sentiva perdente. 

Improvvisamente mi sono accorta che il senso di frustrazione che provavo di fronte alle vite altrui era poca cosa, davvero nulla, di fronte a quello che avevo provato rispetto alla mia stessa vita ma ripulita, migliorata e plastificata. Rispetto alla me più bella, più realizzata, più ricca che avevo confezionato (alla me felice!) che era diventata egemone e della cui esistenza ero riuscita a convincere tutti – tutti, tranne che me stessa. Il senso di inadeguatezza che mi accompagnava non era davvero (o non solo) generato dagli altri (che, esattamente come me, con tutta probabilità, proponevano le loro vite perfette sui social), bensì soprattutto dalla donna che avrei potuto essere, se solo fossi riuscita a diventare davvero la mia versione social, di tanto migliore di me.   

Quello scarto era la mia grande bugia, e quella grande bugia era la mia gabbia. Di questa donna così perfetta e così lontana, alla quale per anni mi ero rivolta in cerca di aiuto e che avevo usato per rafforzare il mio fragile ego, per farmi da specchio nei momenti più bui – e che però mi si era rivoltata contro diventando più forte e più grande di me – è di questa donna che mi sono liberata, in pochi minuti, tra il portone del mio psicologo e la mia scrivania in ufficio.  Di lei non ho più notizie – l’ho lasciata andare, senza rancore e anzi con di gratitudine per i bei momenti passati: saggia e arguta com’era, sono certa che capirà. 

A proposito, la poesia di Wislawa finisce così: 
Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.
E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
Che rumore fa, una donna digitale, quando muore?

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