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Il senso dei funerali. Consolare e avvicinare, anche senza credere

Giacomo Papi

Quanto del successo della religione è dovuto all’aver edificato, nei secoli, impalcature di gesti chiari e misteriosi a un tempo, da ripetere identici davanti alla morte? Ecco perché trovare un rito laico è così difficile, ma non impossibile

Sono stato a tre funerali l’anno scorso, due in chiesa e uno no. E ogni volta mi sono chiesto quale sia, per noi, la funzione del rito. Nei giorni in cui si seppellisce un papa secondo il cerimoniale previsto per i pontefici, rimodulandolo appena per distinguerlo da quello riservato a chi è in carica – nella bara di cipresso di Ratzinger, oltre alle spoglie, ci sono le monete coniate durante il suo regno, il pallio filato con la lana di due agnelli da monache di clausura e il tubo con il rogito che ripercorre il suo pontificato, ma non si terranno le suppliche finali – mi chiedo quanto del successo della religione cattolica, e delle religioni in genere, sia dovuto all’aver edificato, nei secoli, impalcature di gesti chiari e misteriosi a un tempo, da ripetere identici per sempre davanti alla vita, ma soprattutto alla morte. 

I due funerali a cui ho assistito in chiesa nel 2022 si sono svolti d’inverno, in due giorni freddissimi di gennaio e dicembre. Il primo era per una donna giovane, il secondo per un uomo anziano, e mi hanno emozionato in maniera diversa perché le lacrime sono inversamente proporzionali all’età dei morti. Nel ritmo dell’alzarsi e sedersi, per pregare e ascoltare, nella successione delle preghiere e dei canti, quasi sconosciuti per un non credente, degli inviti dal pulpito e delle risposte del coro dei fedeli, e nel ricordo di chi parla, c’è qualcosa che suscita e calma il dolore, che fa piangere e consola, indipendentemente dal fatto di credere. L’effetto, credo, è accentuato dall’architettura e dalla disposizione dei vivi e del morto, in una parola dalla scenografia: le persone sono vicine, ma abbastanza distanti da dovere tendere le mani per scambiarsi il segno di pace, e la natura umana, quindi mortale, di ognuno è disegnata grazie allo spazio in cui tutti, il prete, il morto e i vivi, sono situati dal rito, dall’altezza dei soffitti e dalla ampiezza delle navate. Per questo in chiesa le bare sembrano sempre corte, come scatole da scarpe. Non suoni blasfemo, ma durante i funerali religiosi ho sempre la sensazione di aderire a un format limato nei millenni fino alla perfezione, basato su un equilibrio perfetto tra durata e brevità, noia ed emozione, fatica dello stare in piedi e sollievo del potersi sedere.

Il funerale laico a cui sono stato nel 2022 è stato l’unico funerale laico bello che abbia mai visto. Era un giorno caldissimo di luglio nell’androne di un condominio degli anni Settanta a Sesto San Giovanni, Milano. C’erano la famiglia, i condomini, i custodi, gli amici e i colleghi tassisti del morto, e il morto nella bara chiusa, tra la portineria e gli ascensori davanti a cui era passato per tutta la vita. Il rito è stato semplice, una specie di riduzione senza preghiere di quello cattolico, ma luogo e semplicità custodivano il legame di una comunità. Gli altri funerali laici, invece, sono sempre stati una pena. Nelle “Sale del commiato” – che la legge italiana obbliga tutti i comuni ad allestire dal 1990 – non si sa mai cosa fare: i luoghi sono asettici, estranei e astratti, disegnati secondo un’estetica polacco-giapponese che confonde tristezza e squallore. In più mancano i riti, i gesti da compiere, le parole da dire o cantare, necessarie perché il dolore si trasformi in cerimonia. La Federazione italiana celebranti, fondata nel 2021 da Richard Brown e Clarissa Botsford, inglesi residenti in Italia, e presieduta da Liana Moca, punta invece sulla personalizzazione del rito in base alla personalità del morto e ai desideri di chi rimane (e su questo forma i celebranti). Un rituale, però, si fonda sulla ripetizione e non può essere reinventato ogni volta. Per questo mi piacerebbe che i celebranti organizzassero un convegno con architetti, commediografi, registi e scenografi per costruire edifici e riti funebri degni, e quanto più possibile condivisi, anche per chi non crede. 

Un’ultima cosa: ero in piazza San Pietro la notte della morte di Karol Wojtyla nell’aprile 2005. Erano presenti migliaia di fedeli, che si scattavano foto in massa sullo sfondo della finestra dove il Papa agonizzava o della cupola. Non volevano testimoniare l’evento storico a cui stavano assistendo, ma il fatto di essere presenti e di poterlo testimoniare. Fu la prima volta in cui misurai l’impatto dei telefonini sulla vita e sulla morte pubblica, che oggi è abitudine. Ecco, mi pare che in questi giorni si stia facendo un passo in più. Mai, come per i funerali di Ratzinger e Pelé, mi sembra, i cadaveri sono stati fotografati ed esibiti, equiparando le esequie a eventi di gala, fino allo scempio del selfie con il morto del presidente della Fifa, Gianni Infantino. Un altro fattore fondamentale dei funerali, almeno nella nostra cultura, perché il rito emozioni, consoli e avvicini, sarebbe preservare il mistero della fine, nascondendo il corpo del morto agli occhi dei vivi.

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