Foto di Simba La Rue, via Instagram 

un'analisi

Sicuri che la trap ispiri violenza tra baby gang? Semmai è il contrario

Stefano Pistolini

Chi sono Simba La Rue, Baby Touché e gli altri e perché nel loro caso la musica non c'entra nulla. Un fraintendimento simile a quando si identificava la cultura rap con i quartieri giungla di New York

Adesso che si è stabilito che una porzione di ragazzi italiani riversa la propria socialità nella forma d’aggregazione etichettata come “gang” – rimandando la documentazione del pubblico alla cinematografia internazionale al riguardo, tra ghetti e banlieue – a ruota viaggia l’apparentamento del tutto con la musica trap, destinata da subito ad avere pessima stampa, vuoi per la sfrontatezza dei protagonisti, vuoi per le tematiche che fanno incacchiare chiunque non ne condivida l’esperienza, con quel menarsela sui soldi, le pupe e la vida loca. Lo scenario complessivo è desolante, degno dei talk-show giaculatori di seconda serata che mandano a dormire gli adulti con apocalittiche visioni di figli e nipoti occupati a inseguire senegalesi, o inermi coetanei down, dando forma alla malvagità assoluta.

Intanto imperversano le evocazioni del nulla della modernità che ha generato il disastro, della perniciosa tracimazione dei social, dei fattori imitativi, della questione di un’appartenenza da scovare, del bisogno di capi, modelli, leader e della configurazione di una possibile vita “eroica”, conseguita associandosi a imprese che nel loro nefasto svolgimento raggiungeranno le cronache, scorciatoie per un effimero momento di celebrità. In realtà, facendo i raffronti con quanto accade altrove, vecchio e nuovo continente, viene da pensare che il fenomeno italiano delle gang sia agli albori, in ritardo e in via di configurazione, un Far West nel quale per ora imperversano avventurieri improbabili, con all’orizzonte però una sistematizzazione criminale e una rappresentazione estetica più stabile, che fungerà da richiamo per l’allargamento del “bacino d’utenza” – perché unirsi al branco è naturale a una certa età, un modo di salvarsi o d’illudersi di farlo, in assenza di alternative.

Del resto, l’improvvisazione dei nostri media dimostra che il fenomeno sia ancora a corto di regole d’ingaggio, esposto come una misteriosa deformazione dell’educazione italiana tout court, perfino con un che di stravagante e robinhoodesco e sempre con l’ossessivo sottotesto della musica trap, con una logica di causa-effetto incerottata alla bell’e meglio. Le cose stanno diversamente: le gang delle metropoli, degli hinterland e della nostra provincia crescono e si vanno configurando in molti modi diversi e con finalità estranee tra loro, svariando dal teppismo occasionale al terminale delle grandi organizzazioni, passando per complicate definizioni razziali, razzistiche, interrazziali e, sovente, di dislocazione culturale da un’origine a un riadattamento a un contesto estraneo – quello che per un immigrato di prima o seconda generazione costituisce il nostro paese.

È un fenomeno nato per restare, che non viene decapitato da alcuni volenterosi arresti, ma che anzi si rigenera e si rafforza attraverso la folcloristica rappresentazione di queste operazioni, con forte personalizzazione e allestimento di miti istantanei. La musica trap c’entra? C’entra quanto c’entrano il calcio e la fedeltà a una tifoseria. È un pendant che aiuta a comporre la descrizione di un’adesione, contribuisce alla divisa, è una colonna sonora da megawatt, allestita dal frammentato e residuale cantautorato trap, che racconta uno stile di vita, per quanto reprobo possa sembrare, invitando a gongolarsi nella sua peccaminosità. Ma Baby Gang, Simba La Rue, Baby Touché e compagni faticano a investirsi della statura che gli si attribuisce, mantengono un’aria da muretto e da cortile dei palazzoni, destinata a essere presto eclissata da figure più imponenti, minacciose e meno visibili.

Rimandare il tutto alla musica trap come ispirazione o, peggio, identificare questi neo-detenuti come malavitosi della trap e non come gangster in erba, equivale a restituire alla società dello spettacolo una responsabilità creativa che da tempo non ha più, al rimorchio come vive di una realtà che sa essere ben più creativa e pericolosa. La trap sta alle gang come il rap stava alla violenza dei quartieri-giungla di Parigi, New York, Londra o Los Angeles: è il doposcuola (l’uovo e la gallina, no?), la merenda di chi ha voltato le spalle alle opportunità, ammesso ne abbia mai avute, organizzando un’esistenza basata sull’illegalità e la sopraffazione, con allettanti prospettive economiche.

Poi, certo, si canticchia una canzone trap, come si va a fare una nuotata, tra un affare e l’altro. Ciò che conta è che non s’intravedono altri motivi per cui la vita valga la pena d’essere vissuta. Che sono spariti i temi che solo pochi anni fa appassionavano i ragazzi della stessa età – la politica, o le cause per cui battersi. Si moriva anche per quelle motivazioni, o si finiva in galera, e anche allora c’era una musica a fare da colonna sonora. Però tutto sembrava avere più senso, prima che il mondo andasse in un’altra direzione. Ma fare questo paragone è soltanto arrogante, se prima non si comincia il doloroso procedimento del capire come e perché a tutto ciò si è arrivati. 

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