"Esperimento con una pompa ad aria", Joseph Wright of Derby (Wikimedia Commons) 

spazio okkupato

L'establishment è una cosa, l'élite un'altra. Basta guardare “Almanacco di bellezza” in tv

Giacomo Papi

Un programma, e ora anche un libro, in cui si parla di cultura cialtroneggiando con un’allegria rara in un paese in cui la cultura deve essere tetra per contratto. E Bersani alla presentazione del volume ricorda che un conto è l'élite, concetto dinamico, godereccio ed elegante, un altro è l'establishment, grigio, conservativo e volgare

Alla presentazione di Almanacco di bellezza, il libro di Piero Maranghi e Leonardo Piccinini appena pubblicato da Rizzoli, l’onorevole Pier Luigi Bersani era in gran forma. Dopo avere scaldato il pubblico con un paio delle sue proverbiali metafore, ha detto che uno dei problemi più gravi dell’Italia è che l’élite si comporti da establishment. L’élite-establishment tutt’intorno ha applaudito con convinzione confusa, perché l’oratoria di Bersani provoca spesso di questi détournement. Almanacco di bellezza, per chi non lo sapesse, è il libro nato dall’omonimo programma in onda tutti i giorni dal lunedì al venerdì alle 13 e poi di nuovo alle 20:30 su Classica HD (Sky, Canale 136). In mezz’ora di chiacchiere Maranghi e Piccinini raccontano gli anniversari del giorno – aneddoti storici, musicali, pittorici, ma anche sportivi, se capita – leggono, ridono e cialtroneggiano con un’allegria piuttosto rara in un paese in cui la cultura deve essere tetra per contratto. “Almanacco di bellezza” assomiglia, insomma, a una versione colta ma improvvisata, gioiosa e perfino goliardica, dell’“Almanacco del giorno dopo”, il glorioso programma Rai degli anni Ottanta o, se preferite la contemporaneità, a una versione animata dei doodle di Google. Per questo Aldo Grasso sul Corriere della sera l’ha definita “la trasmissione più snob della televisione italiana”. Per questo il succitato Bersani in un sms inviato al succitato Maranghi ha coniato il neologismo “cialtrosnob”. 

Dopo aver scritto che il libro traghetta su carta l’allegra erudizione della trasmissione, vorrei qui soffermarmi sulla differenza tra élite ed establishment, due concetti che per 99 italiani su cento sarebbero sinonimi, ma che Bersani considera quasi contrari. Alla voce “establishment”, il vocabolario Treccani recita: “Il complesso delle istituzioni che, in un Paese, detengono il potere sia nella vita politica in generale sia in singoli settori di attività; anche le persone e i gruppi che sono a capo di tali istituzioni. Il termine è talora usato in tono polemico, per indicare le forze, i valori, il potere del sistema dominante, della classe egemone”. Ecco, invece, la definizione di “élite”: “L’insieme delle persone considerate le più colte e autorevoli in un determinato gruppo sociale, e dotate quindi di maggiore prestigio: l’é. della società o di una società; l’é. intellettuale della città, del Paese; fare parte dell’é. o di una é.. In partic., nella sociologia di V. Pareto (1843-1923), gli individui, più capaci in ogni ramo dell’attività umana, che, in una determinata società, sono in lotta contro la massa dei meno capaci e sono preparati per conquistare una posizione direttiva”. 

Negli ultimi anni, in un paese bloccato come l’Italia, ha prevalso per entrambe le parole l’accezione negativa, al punto da far dimenticare che il significato principale di élite è, invece, positivo. L’élite è un concetto dinamico, o almeno dovrebbe esserlo. Non è un’appartenenza acquisita alla nascita, ma conquistata con la vita, la capacità e il lavoro. L’establishment, viceversa, è un concetto statico, disegna una cerchia chiusa che si difende dalla minaccia di chi ne è escluso. L’élite è indipendente dal denaro e dalla gestione diretta del potere. L’establishment no. L’élite ha l’arroganza e l’ingenuità di credere di avere qualcosa da insegnare, quindi da condividere. L’establishment ha il cinismo di sapere di avere qualcosa da difendere. Questa differenza si traduce in politiche culturali opposte: l’élite tende a condividere quello che, di volta in volta, ritiene bello, giusto e vero perché ha fiducia nel fatto che tutti potrebbero diventare élite; l’establishment, invece, consolida il proprio potere condividendo solo quello che è brutto e facile, per nutrire una massa che considera destinata all’abbrutimento eterno. L’élite è il contrario di populismo. L’establishment il contrario di popolo. L’élite è godereccia, l’establishment è sobrio, ma l’élite è elegante, l’establishment è grigio. L’élite ha ironia perché sa che la ricchezza e il potere volano via. L’establishment è volgare perché crede che ricchezza e potere debbano durare in eterno, per dato di natura. O almeno così dovrebbe essere perché, l’onorevole Bersani ha ragione, quando si confondono è un casino.

Oggi 9 novembre – ci ricorda il libro Almanacco di bellezza – ricorre l’anniversario della caduta di Nicolae Ceausescu. Quando il megalomane dittatore nel 1974 si autonominò presidente della Repubblica socialista di Romania, Salvador Dalí gli mandò per sfotterlo un biglietto di congratulazioni scritto di suo pugno: “Son excellence Nicolae Ceausescu, Bucharest, Romania. J’ai apprécié profondément votre dèmarche historique de l’instauration du sceptre présidentiel. Respectueusement votre, Salvador Dalì”. Non è dato sapere se i coniugi Ceausescu, prima di essere fucilati, abbiano colto l’ironia.