Beppe Grillo durante Fantastico 7 il 16 novembre 1986 (foto Ansa)

Il foglio del weekend

Bestiario italiano. Repertorio fantastico delle cronache allucinate viste e vissute

Andrea Minuz

In questi ultimi anni. Galleria di personaggi, guitti e moralizzatori che abitano l’iperrealtà televisiva in questi ultimi anni. Aldo Grasso alza il sipario su un paese paradossale

La situazione è in effetti quella di un teatrino con tanti personaggi che si muovono in un paese allo sbando, senza più alcuna morale”, dice Aldo Grasso parlando di questo suo ultimo libro, “Padiglione Italia”, appena uscito per Solferino. Una corposa raccolta dei frammenti domenicali scritti per il Corriere. “Una ricapitolazione allucinatoria di questi nostri anni”, come la definisce lui stesso. Non un saggio di costume, un trattato antropologico, un affresco. Neanche un famigerato “spaccato della società contemporanea”, come usa dire in questi casi. Casomai un “bestiario fantastico”, come recita il sottotitolo. Al modo dei grandi inventari medievali. Lì dove ci si imbatteva in descrizioni di animali veri o immaginari, comuni o esotici, mescolando folclore popolare e temibili riferimenti biblici per estrarre insegnamenti di natura morale, così nella cronaca italiana l’allucinazione e la realtà ormai si confondono, cambiano di posto, sconfinano una dentro l’altra. “A rileggerle impaginate così”, dice Grasso, “queste rubriche sono diventate un’altra cosa, mi sembrano scritte da un’altra persona”. Un détournement che restituisce anche al lettore. Davvero c’eravamo anche noi quando è successo tutto questo? Ci eravamo dimenticati di Barbara Lezzi che propone di convertire l’Ilva in un allevamento di cozze pelose, di Imposimato e De Magistris che aizzano il movimento “free-vax”, prequel dei “no-vax”, di Matteo Salvini che lancia pacchi di Kinder Ferrero in piazza incitando alla “disobbedienza civile”, o di Giorgia Meloni che recita il monologo di Daenerys Targatyen, la regina dei draghi di “Game of Thrones”. Il “fantastico”, l’improbabile, a volte l’impossibile, sono ormai cronaca quotidiana. Solo ripescandoli nella memoria, solo mettendoli tutti insieme, sembrano dirci qualcosa. “Quello che mi stupisce”, dice Grasso, “non è tanto che qualcuno abbia fatto o detto qualcosa di assurdo, ma che sia stato possibile farlo o dirlo come se fosse normale”.

 

Del resto, anche pensando solo agli ultimi giorni, a quei pezzi di realtà impazzita che non hanno fatto in tempo a finire nel libro, si resta increduli. Il leader del “movimento” che doveva abbattere la Casta e instaurare la democrazia diretta su “Rousseau” s’infuria perché l’hanno escluso dalle nomine Rai. Da un siparietto scemo intorno al cane di Giucas Casella, segregato al “GF Vip”, scaturisce un surreale e feroce dibattito sull’aborto. Un rapper-influencer fonda un partito per scherzo, anzi per promuovere il suo prossimo disco, anzi per “trollarci” tutti quanti, come dice lui, giornalisti in testa (ma poi che differenza fa? Non ce l’ha forse insegnato Grillo, padre di tutti i troll, che marketing, politica e cazzeggio viaggiano benissimo tutte e tre insieme?). “Il fatto è che la televisione si è ormai mangiata la realtà”, dice Grasso. Una realtà che allora ti spiazza sempre, si prende tutto, è eccessiva, “sempre superiore a quello che puoi immaginare”. Una realtà che forse si può restituire solo per frammenti, guizzi, piccole intermittenze. Così questo “Padiglione” è anche un’apologia della forma breve che tiene insieme la “massima”, l’aforisma, la riflessione, la nota a margine. Un elogio della scrittura rapida, concisa, serrata. Una partitura di piccoli pezzi che anziché tuonare contro vizi e difetti degli italiani prova a distillare l’allegoria dalla cronaca di ogni giorno. “Da noi l’assenza di grandi moralisti ha permesso il dilagare di moralizzatori”, scrive Grasso.  “Moralista” dalle nostre parti è un integerrimo fustigatore del costume. Vengono in mente Savonarola o Alberto Sordi nel suo film omonimo, anziché La Bruyère, La Fontaine, La Rochefoucauld e quella scrittura mondana che svolazza sulla pedanteria, sui massimi sistemi, restituendoci piccole impressioni, allusioni, ipotesi sulle fragilità dell’animo umano. “Il moralista è l’anatomopatologo dell’anima”, dice Grasso citando Giovanni Macchia, celebre francesista, “uno che non lavora sul corpo, ma usa il bisturi per tagliare l’anima”. “Mi ricordo che all’Università ci avevano fatto studiare il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, che metteva insieme il metodo induttivo di Galileo col metodo deduttivo di Aristotele. Poi, ragionando sul lavoro da fare intorno alle mie rubriche, riprendo le sue traduzioni delle favole di Esopo scritte in questo linguaggio arcaico. Mi divertiva il fatto che invece di spiegare la favola con la morale, Tesauro inseriva un’allegoria. Da qui l’idea di radunare i testi dentro la cornice del bestiario, raggruppandoli tutti in varie allegorie”.

 

Il filo conduttore diventa quindi lo stile. “Non pubblicherei le recensioni televisive”, dice Grasso, “perché fuori dall’attualità non hanno senso. Qui invece la sfida era proprio questa: provare a capire se questi ‘padiglioni’ hanno una forza allegorica capace di superare il tempo della polemica, ma evitando il rischio e il vizio peggiore di tutti, la supponenza che spesso anima il fustigatore”. I grandi moralisti ci mettono al riparo dai massimalismi. E se non abbiamo avuto Diderot e De Maistre, abbiamo pur sempre Longanesi, Flaiano, Marchesi o l’incredibile Arbasino di “Un paese senza”. “Un libro fondamentale e un titolo meraviglioso”, dice Grasso, “lì dentro c’è tutto. Tutto quello che siamo, tutto quello che c’è da sapere su di noi”. Ma non era forse la realtà già franata e impazzita anche alla fine degli anni Settanta, quando appunto scriveva Arbasino? “Certo, però c’era anche più compostezza istituzionale, certe cose un po’ si nascondevano, un po’ si mimetizzavano meglio”. Poi la tv inizia a dare segnali inequivocabili. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, “quando lo spettatore comincia a desiderare di salire sul palcoscenico, a voler dire la sua”. Si torna sempre lì, tra le piazze inferocite di Santoro e le monetine al Raphael. Poi, in un balzo, ecco Casaleggio: “Un giorno la casalinga di Voghera voterà dal televisore per il prossimo presidente della Repubblica”. Ma l’intreccio tra politica e tv non è più una faccenda di “conflitto di interessi” (chi se lo ricorda più?). La tv è la realtà quotidiana, il terreno condiviso di ogni schieramento. Siamo tutti concorrenti di un interminabile reality che rivive nelle pagine di Aldo Grasso. Ecco un’“Isola dei famosi” con la “Brigata Maduro” che parte per il Venezuela (Bertinotti, Gianni Minà, Nichi Vendola, Vattimo, Fusaro e un manipolo di intrepidi parlamentari M5s). Ecco Giuseppe Conte che scrive lettere “ascoltando in sottofondo Battiato” (“lo scenario geostrategico appare mutato. Si prospettano nuove traiettorie demografiche, suscettibili di indirizzare il continente europeo verso una stagnazione secolare”). Ecco Rosario Crocetta che rilegge in salsa “gender fluid” il gallismo di Brancati (“se dovessi diventare presidente della Regione dirò addio al sesso e mi considererò sposato con la Sicilia, le siciliane i siciliani”). Ecco Erri De Luca sabotatore della Tav col suo “folto seguito di groupies attempate”. Ecco Mario Capanna, “parastatale della rivolta, ufficiale di scrittura della mitologia sessantottesca”, poi tramutatosi in posto fisso come un film di Checco Zalone. Caratteri, personaggi, maschere che fanno rivivere le grandi categorie del repertorio italiano e si rinnovano nel gran teatro dei talk-show, nel circo dei social, in una realtà inghiottita dal palinsesto televisivo. Persino il Tar del Lazio ha ormai lo statuto di personaggio-chiave. “Se avesse una faccia potrebbe essere quella dell’Idra di Lerna, un mostro orrorifico a nove teste che viveva in una palude e distruggeva qualsiasi cosa gli capitasse a tiro”. E poi le variopinte follie giudiziarie di Davigo o Di Matteo, i narcisismi degli ospiti permanenti, gli “indignati in seduta perpetua”.

 

Ma rileggendo, appunto, le sue rubriche per montarle in questo “padiglione”, a quali personaggi si è affezionato di più Grasso? “È chiaro che senza tutta la galassia Grillo questo libro non esisterebbe. I personaggi che ha tirato fuori lui in questi anni, i suoi ‘attori presi dalla strada’ sono tutti fondamentali. Ma un personaggio a cui mi sono affezionato è senza dubbio Bersani, lo sparring-partner di ogni dibattito. Non puoi non provare tenerezza e simpatia nei confronti di uno che a suo tempo ha accettato di farsi umiliare da Crimi in streaming. Bersani quando serve c’è sempre, non si tira mai indietro. E poi ci crede, si appassiona, parla, parla, parla e perde il filo”. Bersani è ovunque: Floris, Gruber, Berlinguer. Ma, a differenza degli altri ospiti a tempo indeterminato, non è mai lì per un libro in uscita. “È una specie di umarell dei talk-show”, dice Grasso, come quei vecchietti in pensione che si aggirano vicino ai cantieri, controllano i lavori, danno suggerimenti, fanno domande. Ma i personaggi sono troppi, non è facile scegliere: “Meloni che fa una diretta Facebook per preparare la caprese, ‘genuina, tricolore e italiana’, la coppia Boccia-Di Girolamo, Santanchè che si scatena in discoteca sulle note di ‘Paradise’ per protestare contro la limitazione delle libertà. E poi c’è Montanari” (Sky prenda appunti per un “late-night” come quello con Cattelan). “Montanari è un po’ cattivo, livoroso, minaccia querele, soffre forse il complesso di inferiorità con Sgarbi, perché voleva essere uno Sgarbi di sinistra ma non ha l’estro, né la fantasia”.

 

Nel repertorio degli eterni “tipi” italiani che abitano l’iperrealtà televisiva c’è infatti sempre uno storico dell’arte a occupare la casella del dannunzianesimo, dell’“eccesso”, del narcisismo sfrenato, della vita che imita l’arte o il Bagaglino, a seconda. È un po’ l’eredità del modello Zeri. Montanari la recupera in salsa “agit-prop”. Fa bene Grasso a includere in “Padiglione Italia” le sue fatali parole, che andranno incise nel bronzo: “I Cinque stelle hanno costruito una parte importante del programma sulla cultura partendo dai miei libri”. Come un racconto che si compone tra una rubrica e l’altra, si segue così anche la formidabile trasformazione del Movimento cinque stelle, “da partito del vaffa, della cultura del no, del populismo” a “italianissimo partito del nonostante” (Grasso lo scrive nel 2016). Ritorna spesso la straordinaria attrazione per il Movimento cinque stelle dei nostri artisti, spesso orfani di una “vera sinistra”, qualunque cosa essa sia stata o debba essere. Dario Fo, naturalmente. Celentano (“chiunque abbia un minimo di buon senso non può non condividere il suo programma di Grillo”). E poi Mina, Claudio Santamaria, Ivano Marescotti, Sabrina Ferilli, Fedez che gli regala un inno da cantare tutti insieme al Circo Massimo, fino a Fiorella Mannoia, che a un certo punto ci ripensa e se la prende col Pd: “Aspetto ancora le scuse da una sinistra che ha indotto tanti come me a dirottare, anche sbagliando, la propria speranza da un’altra parte”.

 

“Classica sindrome del deresponsabilizzato che riversa la colpa sugli altri”, scrive Grasso: “Hanno votato i grillini, ma per punire il Pd (di Renzi)”.  Ma in questo bestiario italiano, inutile dirlo, si erge come un faro e un monito perenne la figura di Beppe Grillo. Ogni tentativo futuro di raccontare l’Italia di questi anni dovrà passare da lui. “C’è stato un tempo in cui Beppe odiava i computer”, scrive Grasso, “li sfasciava sul palcoscenico, inveiva contro la bolla del web. Poi con un computer ha fondato un partito e con il web ha elevato il vaffa a ideologia”. “In un mondo in cui tutti necessariamente recitano, secondo le regola della politica pop, il suo successo deriva dal fatto che lui è il più bravo a recitare”. “‘Te la do io l’Italia’ è uno spettacolo triste dove un buffone dice di farsi beffe di altri buffoni, dove il malumore e la rabbia si travestono da ultima risata, dove il vaffa esprime l’inconfessabile esultanza del proselitista, felice di incatenare gli altri nel nome della libertà”.  Mancava solo l’intuizione di Casaleggio: “Mettere in connessione sulla rete persone inattive frustrate, dando loro il movimento che gli mancava”. Ma torniamo alla stringente attualità.

 

Qualche sera fa, su “Blob”, si è intravisto Carlo Freccero, imbacuccato, furioso e infreddolito, che aizzava i No vax dal pulpito di un palchetto montato in piazza a Trieste. Una scena penosa. “Vedere Freccero così, che straparla, che inveisce contro lo Stato, mi ha fatto venire una gran malinconia. Non riconosci più le persone, non capisci più quale virus le abbia colpite”. Freccero, Cacciari, Agamben. Quale molla scatta? Narcisismo? Voglia di tornare alla ribalta o di fare un ultimo giro sulle barricate prima di ritirarsi in campagna? “C’è anche questo, certo. Quando per gran parte della vita ti hanno dato del genio non vuoi uscire dalla luce dei riflettori. Non accetti l’idea di finire nell’ombra, soprattutto se non sei abituato a coltivare l’ombra, quella che ci accompagna ogni giorno con un ghigno, una smorfia perenne, come diceva Cioran”. L’ombra invece si apparta. Sempre più spesso lascia il campo libero alla mitomania. Succede a tutti. Al piccolo, anonimo indignato dei social, o alla stella della politica o della tv. “I grandi moralisti, invece”, dice Grasso, “sono tutti grandi cultori dell’ombra”.

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