Il demiurgo creatore nell'incisione "Ancient of days" di William Blake (Wikimedia Commons) 

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Ma chi ce lo fa fare, di essere creativi?

Giacomo Papi

Fare le cose per bene, con la testa e le mani, nel miglior modo possibile, non è mai disdicevole. Ma a un certo punto della storia, l’artigiano si è vergognato di sé e ha inventato il concetto di artista per credersi artefice. Lo racconta Stefano Bartezzaghi nel suo ultimo libro

Ci voleva Stefano Bartezzaghi per spiegarmi perché mi viene il nervoso ogni volta che sento parlare di “creatività” e “scrittura creativa”. Nel suo nuovo libro Mettere al mondo il mondo. Tutto quanto facciamo per esseri detti creativi e chi ce lo fa fare, appena pubblicato da Bompiani, Bartezzaghi scava nell’enigma di una delle più infestanti “parole-coro” dei nostri tempi, ricostruendone la storia e la resistibile ascesa, le origini idealistiche (“Perpetua creatività che è di tutte le forme spirituali”, Benedetto Croce, 1932) e prima ancora romantiche (“Sdegno il verso che suona e non crea”, Ugo Foscolo, Le grazie, 1812) e prima ancora cristiane (“la potenza di Dio creativa”, Francesco Buti, 1395).

Nonostante molteplici ma sparpagliate apparizioni, la “creatività” fece il suo ingresso in società soltanto nel 1950, quando Joy P. Guilford aprì il congresso dell’American Psychologist Association di Washington con una prolusione intitolata, appunto, “Creativity” che trasformò un concetto fino ad allora relegato alla religione – e soltanto per estensione all’arte e alla filosofia – in un’attitudine applicabile a ogni attività umana, alla letteratura come alla pubblicità, alla pittura come alla sartoria (cfr. “creazioni sartoriali”). Nella seconda metà del Novecento, cioè, la creatività è diventata un valore morale in ossequio al quale tutti hanno dovuto progressivamente sforzarsi di diventare o apparire “creativi” e ogni merce ha iniziato a essere presentata come una “creazione”. Un esempio tra i molti: del bravo chef Carlo Cracco, creatore del tuorlo d’uovo fritto, in rete si legge che “stupire il commensale con sempre nuove creazioni è la sua mission”. 

Non è questione di snobismo, anzi. E non è questione di separare arti nobili e ignobili – moda e sartoria, letteratura e pubblicità – anche se come fa notare Bartezzaghi definire “creativi” Tiziano o Picasso equivarrebbe a sminuirli. È esattamente il contrario. È questione di dire che la creatività scimmiotta l’idea della creazione divina, la rende mestiere, e ha perciò in sé un nucleo cheap, irrimediabile e irredimibile. Come scrive Bartezzaghi, o chi per lui, nell’aletta: “La creatività eleva: come l’artista con la sua opera sembra voler emulare il Creatore, così chiunque può sperare di parere un artista, grazie alla propria creatività”. C’è qualcosa di comico e doppiamente blasfemo nell’immaginare Dio come un uomo laborioso – un fabbro, un falegname, uno scrittore, un Demiurgo – e ogni essere umano come un dio possibile, magari in sonno. Bartezzaghi è un serio studioso e non è così esplicito, ma il “mito massmediale” della “creatività” è uno dei più potenti apparati ideologici della borghesia perché afferma che l’uomo attivo, quello che “crea” cose, assomiglia a Dio perché Dio gli assomiglia. Descrive, cioè, il laborioso cittadino borghese come un piccolo dio, e l’artista come un piccolo borghese. 

In Mettere al mondo il mondo – il titolo cita un’opera di Alighiero Boetti – non è spiegata soltanto l’origine di questa smania cafona di voler essere creativi a tutti i costi, ma si racconta chi ha forgiato – sulla scia del romanticismo che a sua volta riprendeva idee greche – la fede nella divinità dell’artista e nel genio immortale (sono stati critici come Harold Bloom, George Steiner). Ma soprattutto si chiarisce che la mossa culturale fondante è stata separare idea e cosa, progetto e realizzazione, ideazione ed esecuzione, dunque arte e tecnica che per i greci erano una cosa sola. L’avere tracciato una linea tra arte e artigianato, più ideale che reale. Chiunque osservi vasi antichi, dipinti o sculture in un museo dovrebbe con onestà riconoscere che tra tecnica e arte, tra mano e manufatto, non c’è un salto, ma continuità. La tecnica – la capacità di scrivere, scolpire, musicare o giocare a pallone – è la via per l’arte e tutto il resto – la verità dell’uomo, l’angosciante bellezza del cosmo e la morte – è un mistero che non si può insegnare. 

La tecnica basta a sé stessa e non ha bisogno di giustificazioni ideologiche. Fare le cose, e farle bene, con la testa e le mani, nel miglior modo possibile, non è mai disdicevole. Invece a un certo punto della storia, è accaduto che l’artigiano si sia vergognato di sé e abbia inventato il concetto di artista per credersi artefice. Come diceva Jacques Brel, lo chansonnier belga, “il talento è averne voglia. Tutto il resto è sudore, traspirazione e disciplina”. E se Brel e Bartezzaghi non bastassero, ci sarebbe anche Carlo Fruttero che, come ha scritto sua figlia Carlotta, diceva sempre: “Tutti parlano di creatività. Ma che cos’è questa creatività? Ai miei tempi non si creava, si faceva. Io non creo, FACCIO”. In fondo sarebbe così semplice: poesia deriva da ποιέω, “poiéo”, che vuol dire fare. Facciamo che facciamo. Chi scrive “scrittura creativa”, innanzitutto, non sa scrivere.