La sindrome da rientro

Michele Masneri

La vita in smart working in borghi o isole fuori dal mondo non era niente male. Ora però si minaccia il ritorno in ufficio e nelle città. La domanda è: cos’ha Roma che Favignana non può offrirci? Panico

Hai visto, pure Google! Pure Google cosa? Pure Google ha detto che lascerà a casa i suoi dipendenti fino a gennaio. Ecco, se lo fanno in Silicon Valley il fantasma dello smart working, anzi smartuorchi, ritorna ad aleggiare anche sulle nostre città. Perché si fa presto a parlare di scuole, di Dad, di uffici, ma chi può, e anche chi non può, non ha nessuna voglia di tornare. Già, tornare in città dopo le vacanze normalmente è dura, ma adesso pare drammatico. Un po’ perché abbiamo perso tutte le coordinate temporali: da una parte è stata un’estate lunghissima. Dall’altra, agosto è volato via. Sarà che non sappiamo esattamente cosa succederà, perché il, anzi, i lockdown sono stati duri, perché siamo stanchi, perché sì e basta. La colpa come al solito è anche degli influencer. Influencer corrotto, nazione infetta. Gli influencer sono ancora in giro, sono partiti a fine maggio e sono ancora sulle loro barche, hanno fatto prima il catamarano alle Eolie poi la stanziale in Puglia poi lo yacht in Costa Smeralda. Bisognerà chiamare la polizia o la Guardia costiera per rimpatriarli. 

Gli influencer danno il cattivo esempio, evidentemente. Gli influencer tanto sono stati in giro che l’altro giorno la Ferragni e Fedez sono stati paparazzati mentre litigavano, sulla barca del socio Diego Della Valle (finalmente uno scoop. Scoop che non va sottovalutato: intanto la rivincita dei vecchi giornali sull’Instagram, e si capisce che l’unico scatto che ha un qualche valore commerciale, l’unico scatto che gli influencer non si fanno da soli è quello dello scazzo, del litigio. Subito sono piovuti i meme. Perché hai usato i miei smalti, quando hai i tuoi? ecc. ecc.). 

Anche loro soffriranno della temibile “post vacation blues”? La sindrome da rientro che colpisce umore e articolazioni, e quest’anno pare epidemica ed endemica, e per la quale non c’è vaccino che tenga? Dopo lo yacht i Ferragnez adesso sono sul lago di Como. Insomma non ci pensano proprio a tornare in città. 

Termometri: Milano e Roma sono infatti deserte. Più Milano che Roma, a dire il vero. E Milano non dovrebbe esserlo, deserta, dovrebbe essere tutta in grande spolvero, perché la settimana prossima, anzi, “settimana prossima” si prepara al suo sabba identitario, al rito collettivo che dovrebbe cancellare per sempre il Covid e le crisi, il rito taumaturgico, insomma il Salone, anzi, super Salone e tutti incrociano le dita, anche se l’incendio del grattacielo, con Mahmood inquilino in fuga e il sindaco Sala sotto, tra le fiamme, non sembra proprio un auspicio favorevole. Cosa c’è di più identitario di un grattacielo, con Mahmood dentro, per la Milano di Sala? Ma almeno a Milano si aspetta quello. Si aspetta qualcosa. A Venezia c’è il Festival del cinema con la solita transumanza: per chi può o deve, una sinecura, un’illusione, per un’altra settimana non si torna veramente alla realtà. La realtà è rimandata. Parcheggiati al Lido, tra spritz e baccalà mantecati e passerelle e umidità. 

Ma poi, queste città, la realtà? Prima o poi si dovrà tornare. A Milano almeno fa fresco. A Roma è crollata ogni certezza. L’ultima, quella di noi poveracci, era che “ad agosto si sta benissimo”. Dopo quest’anno, con temperature tropicali anche di notte, è crollata pure questa. Tutti via dalla città bollente. Dove andremo il prossimo anno? Senti solo gente che non torna, o riparte. “Sto fuori fino al 6”, la risposta più comune. 


 “Faccio tutto da qui”, dicono dalle campagne. “Sto pensando di passare ottobre a Favignana”, mi dice la mia amica Elena. E lì hai l’illuminazione: ma tornare, stare a Roma, per quale motivo? Uno normalmente, storicamente, va a vivere in città per due ragioni: servizi che non ha al paese, e il fatto di scegliere lui con chi parlare, non con chi gli impone l’urbanistica e il caso: perciò si lasciò la provincia. Ma a Roma, storicamente non esci dal tuo quartiere per nessuna ragione (le metropolitane e i tram e i bus si riducono di anno in anno, se non ci bruci dentro – a Roma la bruciatura è orizzontale). I servizi: ormai, si sa, sono meglio in quei paesi anche appenninici remoti ove regalano le case a 1 euro.  Dunque perché spenderne almeno 4 mila al metroquadro?  Per stare a casa a vedere Netflix? 

 

I monumenti sono impallati dalla sporcizia ormai stratificata e tutelata dalla Soprintendenza, e cinghiali e turisti americani “imbriachi” che ti travolgono col monopattino easy rider. E non per fare gli Umberti Echi con Berlusconi dei tempi che furono, ma se le elezioni andranno come si teme, in tanti si medita la fuga. Se Raggi verrà confermata con l’indeterminato, dopo questo stage di cinque anni, o se il nuovo stagista Michetti, anche no, grazie. Abbiamo dato.

Intanto: la fibra ottica non c’è. I cinema e le librerie sono decimati. I ristoranti, tanto è la crisi, riaprono il 6. I tavolini all’aperto, gran risorsa del post Covid, e “segno” urbanistico (ovviamente involontario) del quinquennio, sono ormai dominio riservato dei No green pass (stanno talmente bene a magnare all’aperto che non si sono affaticati ad andare a bloccare le ferrovie, è ovvio). Noi pochi che siamo tornati in città ci ritroviamo così in pizzerie e trattorie nelle sale interne, dove non si è mai stati. Ci guardiamo tra noi. Ma dove siamo? Che ci facciamo qui? Ma uno si chiede: Favignana, in fondo, perché no? Ma pure Viareggio. E anche il lago di Garda dell’infanzia. Buone connessioni, aiuole ben curate, niente cinghiali. Forse è la profezia di Boeri, forse bisogna andare verso i centri meno densi. Forse la temibile sindrome da rientro è più temibile di quel che si pensa: forse semplicemente queste nostre città italiane fanno schifo. 
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).