La città e le sue prime ore "gialle"

Roma città riaperta

Spariti i gabbiani, arrivano gli umani, tra timidi avventori e recidivi del "cartoccio" da asporto

Marianna Rizzini

Trastevere e Campo dei Fiori nella quiete della mattina, San Silvestro a pranzo ritrova la sua dimensione di piazza (non più mensa). E il primo lunedì giallo sembra meno euforico dell'ultima domenica arancione

Umani e gabbiani. Il primo indizio di riapertura passa per il numero di gabbiani appollaiati sulle macchine della piazza, di prima mattina: più camerieri di bar e ristoranti intenti a lavare il selciato e tirare fuori tavoli compaiono, meno gabbiani spuntano sui cofani, per non dire di quelli che camminano indisturbati in mezzo alla strada. E stamattina i tavoli predominavano sui gabbiani, quando ancora gli umani non avevano fatto la loro comparsa. Erano infatti quasi timidi, gli umani, tra Trastevere, Campo dei Fiori e Piazza Navona, e qualcuno per riflesso condizionato usciva ancora dal bar con il cartoccio, elemento ormai costante del paesaggio pandemico – sacchetto bianco dove la colazione se ne va via con un cliente che la stringe come un tesoro, memore del lockdown 2020, quello duro in cui non esisteva neanche l'asporto. E il cameriere stamattina inseguiva l'avventore distratto che fuggiva con il suddetto cartoccio, e lo invitava a sedersi fuori, “glielo porto io il caffè”, e quello diceva “no grazie”, forse frettoloso forse timoroso forse semplicemente disabituato alla vita normale in favore della vita rosso-arancione con divieto di stazionamento. Fatto sta che quello – incredibile a dirsi – non era l'unico cliente riluttante del primo giorno di riapertura romana: a ora di pranzo il muretto del Pantheon si riempiva di lavoratori in pausa con i cartocci, come fosse ancora un giorno qualunque dell'interminabile mese rosso-arancione, e si sedevano lì, scomodi, con le borse al collo, incuranti dell'esplosione di dehor, tavoli, sedie ed enormi menu-lavagna, tornati di moda perché evitano l'antipatica procedura menù con il qr-code (la si sopporta di nuovo, in memoria dei giorni in cui si sognava di potersi sedere al ristorante; la si sopporta pensando sia il male minore, segno dei tempi in cui dire “mi passi il menù” è cosa maleducata se non blasfema, subito seguita da ammonizioni e offerte di Amuchina).

 

E oggi è lunedì, ma a nessuno importa niente, tanto più che c'è il sole, e però, rispetto al maggio di un anno fa, quando la riapertura faceva quasi quasi commuovere, l'odierno prendere posto a un qualsiasi tavolo, per bere o mangiare qualsiasi cosa (e ci si siede più volte, in bar diversi, tanto per vedere l'effetto che fa) fa sentire meglio, sì, ma senza illusioni. Non ci si crede fino in fondo, forse. Si teme la disillusione cocente d'ottobre (il prossimo come il precedente?). Fatto sta che anche i più impazienti, quelli che (scrivente compresa) aspettavano questa mattina gialla come il momento del riscatto, del “finalmente”, della ripresa di qualsiasi cosa lasciata in pausa uno, due, tre, sei mesi fa, e il tavolino a cui potersi di nuovo sedere come simbolo di stagione nuova, si sentivano invece stranamente a corto di energia (proprio oggi?, era l'auto-interrogativo), un po' stralunati, sollevati ma non spensierati. E per fortuna poi arrivavano le vie del centro-centro, dove i tavoli apparivano pieni anzi strapieni, con strane composizioni di fiori e frutta a tradire l'origine del locale che un tempo si sarebbe detto, con disprezzo, “da turista”, ma oggi chissà, basta che ci sia e sia aperto.

 

E c'era chi, nel lunedì giallo, si trovava a passare per l'improvvisamente vuota Piazza San Silvestro, fino a due giorni fa paradiso dei cittadini con cartoccio, con la lunga panchina circolare e il sole, ecco l'appeal dell'unico posto dove, in pieno inverno, ci si poteva quantomeno sedere per mangiare “da asporto”, e quella sì, oggi, era una bella visione: la piazza non era più mensa, niente più bicchieri vuoti rotolanti nel vento, niente più caffè appiccicoso rovesciato sul marmo. E se via del Tritone ha sempre l'aria del cantiere – per attraversare la strada bisogna quasi circumnavigare il grande magazzino – il bistrot brutto ha però aggiunto posti dall'altro lato del marciapiede (magra consolazione). E insomma in confronto ieri, l'ultima domenica arancione, con la gente in giro nonostante la scomodità del cartoccio fino a sera, sembrava gialla più di questo mesto lunedì giallo, a cui ancora mancano poche ore per la sua prima sera. E il vero sollievo, dopo sette mesi, sta in quelle ore aggiuntive oltre la mannaia delle 18, tanto che chi trova posto a pranzo rincuora quelli che restano in piedi: “Potete venire stasera”. Una sera comunque monca, tutta raccolta a monte delle 22, e però senza l'effetto-compressione del giallo d'inverno, quando il sabato per salutare un amico ti dovevi dare appuntamento per un tè-caffè-aperitivo tutto insieme, dalle quattro alle sei, come viene viene, e chissà come sarà andare a cena fuori, da oggi, come gli inglesi, il popolo più invidiato del momento, per i vaccini e per l'antropologia di gente che di suo non ha mai avuto il problema, cenando nel tardo pomeriggio, di dover prenotare un tavolo per l'unico turno delle ore 19.

 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.