Nel verde del quartiere di Porta Nuova: primo weekend in zona arancione, sabato scorso a Milano (foto LaPresse) 

La speranza è nel fare

Simonetta Sciandivasci

Agire senza prospettiva, da soli, nell’incertezza: un altro modo per uscire dall’anno della pandemia. Voci e storie di chi ha cominciato a ricostruire, di chi ha inventato un blog, un’arte, un lavoro e ha cercato di salvarsi senza pensare troppo al rischio e al domani

Non ci resta che fare. Sperare ci va poco, lo dicono i numeri, lo diciamo noi per primi al bar, al telefono, agli amici, ai nemici. Lo sentiamo quando camminiamo da soli e la vita nuova ci sembra estranea, non più surreale. Ha perso fasi, quindi prospettiva. Non appendiamo più bandiere né arcobaleni alle finestre, le zone rosse non sono un confino domestico, e per strada ci sono le persone, grazie al cielo, e non più i cerbiatti che l’anno scorso avevamo il romanticismo di pensare incarnassero la natura che si riappropriava dei suoi spazi, quando invece, più prosaicamente, la natura aveva fame. Viviamo il presente e non significa che ci lasciamo vivere, ma che agiamo, per la prima volta, slegati dal contesto, dalla congiuntura, da quello che è stato e potrebbe essere. Sta qui la grande differenza, o almeno una delle differenze, tra prima e dopo: quando agiamo, proviamo a prescindere sia dal pensiero delle cause che da quello delle conseguenze. Prima era diverso: prima, ci facevamo guidare da quello che avevamo per le mani e, soprattutto, da quello che credevamo avremmo avuto per le mani. I neet, i ragazzi che non cercavano lavoro perché erano convinti che non l’avrebbero mai trovato, erano in questo senso (e lo sono ancora, non sono scomparsi) l’esempio perfetto di questa specie di connubio, di questa connessione deresponsabilizzante che, tuttavia, era il segno di una società non del tutto disgregata. Speravamo o non speravamo previa misurazione e calcolo delle possibilità. Speravamo, spesso, per illuderci, rimandare, demandare, fermarci e, naturalmente, dare la colpa agli altri, ai governi, ai sistemi, agli ultimi vent’anni, cinquanta, cento. 


Ora, invece, la pandemia ci ha isolati davvero, ci ha staccati non semplicemente dagli altri ma dal consesso, dalla globalità, dalla storia, ci ha infilati in una enclave dove il rapporto di causa ed effetto sembra non governare gli eventi, e ci ha mostrato che contro il virus non poteva niente né l’intelligenza degli elettricisti, né quella degli esperti, ci ha fatto sperimentare che la collettività non può tutto. Tutto questo ha prodotto una coscienza molto viva di come l’azione personale e singola possa fare la differenza, e di come essa sia una salvezza, in questo momento l’unica. In fondo, era a questo che attingeva Giuseppe Conte quando, nella prima fase della pandemia, ci richiamava alla nostra responsabilità personale: per uscirne insieme, dovevamo agire singolarmente. Quasi tutte le storie di chi ha resistito o si è reinventato hanno questo tratto comune, più o meno esplicitato, e più o meno chiaro alla coscienza dei protagonisti: la rottura con il prima e con il dopo, la praticità vorace.


Vincenzo Cardarelli, che Ennio Flaiano definì “il più grande poeta morente” perché era sempre malaticcio, tremolante, raffreddato, e circolava con addosso il cappotto anche d’estate, scrisse: “La speranza è nell’opera. Io sono un cinico a cui rimane per la sua fede questo al di là. Io sono un cinico che ha fede in quel che fa”. 


Sarà che una malattia condiziona ogni ambito e aspetto delle nostre vite, così che tra i malati e i sani esiste una parità di condizioni mai sperimentata prima, ma queste parole di un eterno malato ci descrivono perfettamente. 


Siamo cinici non perché non crediamo più in niente, ma perché abbiamo bandito le chiacchiere, le attese. Abbiamo atteso a lungo, sospesi, illusi che tutto sarebbe tornato come prima e, in fondo, che un poco precisato sforzo collettivo avrebbe aiutato e guarito tutti. Ora o non speriamo affatto o speriamo in noi stessi, nel fare, nell’opera. Adesso e qui. 


Mario Calabresi, nella sua newsletter Altre Storie, ha chiesto a Natalia Aspesi cosa sia per lei il futuro. Risposta: “Intanto, cosa mangerò stasera, che è già un problema, ci devo ancora pensare. Io, in fondo, penso di averlo il futuro, sapendo che non ce l’ho, ma sono due cose che stanno insieme”. E ancora: “Io non ricordo niente, nulla: non solo ho dimenticato nel vero senso della parola, ma poi per me il passato è il passato, non mi interessa”. 


Proviamo la stessa indifferenza verso il passato, specie quello molto vicino. E’, forse, un prodromo della fine sociale della pandemia: la fase in cui, anche se il virus non è stato sconfitto, viene dimenticato, ci si stanca delle precauzioni, si va incontro al rischio, si torna alla vita di sempre – le pandemie finiscono o così o perché i virus s’attenuano, scompaiono, ricompaiono, vengono neutralizzati da una cura molto efficace, e questa sarebbe la “fine medica” del contagio. 

 

Oppure, è lo spazio nel quale siamo incastrati e siamo consapevoli, però, di doverci muovere, pur senza avanzare. E’ bizzarro che, sebbene ci siano i vaccini, i cui risultati sono incoraggianti a dispetto dei pastrocchi precauzionali che non sono altro che disastri comunicativi di molti governi, dal dimenticarci del virus siamo così lontani. 


E’ tutto bizzarro e inedito. La ricostruzione, il reinventarsi, le storie belle, le storie brutte: quasi tutto segue una traiettoria inusuale. In alcuni, questo ha prodotto un’angoscia terrorizzante, in altri una gigantesca spinta. In nessun caso, nemmeno nelle storie più affascinanti, avventurose, belle, esiste una prospettiva di medio e lungo termine. Nessun pensiero su come mettere a sistema un’idea, un successo: tranne che per i ristoratori che con il delivery hanno triplicato gli incassi e diminuito le spese, e che difficilmente torneranno a lavorare come prima, visto quanto è conveniente lavorare come stanno facendo adesso, le nuove ricette, le nuove idee, i nuovi trend hanno un futuro incerto: questa incertezza, però, non li ha ostacolati. E’ una gran bella novità, o forse la forza della disperazione.
“Stiamo aspettando il mondo di dopo come se ce ne dovesse arrivare uno nuovo in un pacchetto. Con soldi da spendere in viaggi, vestiti di lino bianco per andare in Grecia, innamoramenti, diversivi, chissacché che ancora non conosciamo ma che ci renderà felici. Mi piace questa fiducia in un futuro che non esiste – d’altronde, è così che si sopravvive”, ha scritto Ester Viola. E’ un’analisi perfetta per l’anno scorso, ma rispetto a quello che sta accadendo quest’anno, tralascia forse il fatto che quella fiducia è una recita legata al presente, più che al futuro. 


Qualche settimana fa, il Washington Post ha raccontato le storie di chi, nell’ultimo anno, ha rivoluzionato la propria vita, naturalmente in senso positivo: il denominatore comune a tutte è il trionfo dell’autodeterminazione e del rischio. Rischiamo quando non abbiamo niente da perdere, oppure quando ci rendiamo conto di essere soli e che, quindi, le nostre azioni, fallimentari o meno che siano, non avrebbero ricadute sugli altri.


Rischiamo quando capiamo che dipende tutto da noi. 


Le storie del WP: amavo un lavoro che mi faceva soffrire, mi sono licenziata e ho investito i miei risparmi per comprare il ristorante dei miei sogni; mi sono trasferita a Parigi; ho trovato il coraggio di lasciare il mio compagno e mi sono innamorato; ho divorziato dopo trentatré anni di matrimonio; sono stata licenziata e mi sono resa conto di aver lavorato per anni per un branco di razzisti, quindi mi metterò al servizio delle aziende per aiutarle a essere inclusive; mi sono messa in proprio con mio marito per sfruttare l’incremento del settore immobiliare, finché dura. Finché dura. Il calcolo del rischio, che è la cosa meno rischiosa che esista, è scomparso dai radar di molti. 


In un’intervista sul suo ultimo libro di cucina, Nigella Lawson, la felliniana conduttrice televisiva inglese che ci ha insegnato a impastare biscotti con qualunque cosa dentro senza morire d’infarto e nemmeno di sensi di colpa, ha detto al New Yorker: “C’è una particolare immediatezza nelle ricette, perché non possono essere scritte per i posteri. Chi le inventa, le consegna interamente al presente, e non importa quanto a lungo resistano e si tramandino. Quando pensi a cosa cucinare, quando inventi un piatto, lo fai pensando ai tuoi contemporanei e alle loro cucine, ai loro mezzi”. Considerato che una delle cose che abbiamo fatto di più è stata cucinare, se prendiamo per buona la visione di Nigella (perché non dovremmo? E’ una signora che ci ha fatto intingere gli smarties nel burro di arachidi: è chiaro che ci ama), abbiamo agito nel presente e per il presente, ci siamo esercitati a stare piantati nel nostro tempo, a considerarlo come un pacchetto di poche ore, non certo come un’epoca. 


Quali che siano gli effetti, se ne ce sono stati, un fatto ben visibile è che quasi nessuno pensa, in questo momento, di mettere a sistema niente: sfruttare l’onda è diventato di buon senso. La carta della Fortuna ha una dignità accresciuta e nuova: il culo è forza motrice, bisogna stare al suo passo.  


Un grande editor, una volta, confessò a questo giornale che la sola risposta che avrebbe voluto dare, tutte le volte che in occasioni ufficiali e pomposissime gli veniva domandato cosa facesse vendere un libro, era: il culo. Naturalmente, pur credendoci moltissimo, non poteva farlo, e tutte le volte rispondeva pontificando su tendenze, valori, consumi culturali. 


E però, a leggere i dati dell’ultimo anno di GFK, il principale ente di rilevamento del mercato editoriale, la prima cosa che viene da pensare è proprio che così come è quasi impossibile prevedere il successo di un libro (in Italia, prima che Harry Potter diventasse cos’è diventato, fu rifiutato da un grande editore con la seguente motivazione: “E’ la solita storia di maghetti”), per rivitalizzare il settore non servono campagne di promozione della lettura: ci vuole un’altra vita, un evento straordinario. 


In Italia, non si vendevano tanti libri come nell’ultimo anno da più di un decennio. Che il lockdown abbia aumentato il tempo libero di molti, vista la mole delle vendite, spiega solamente in parte la fioritura. D’altronde, vista la disabitudine alla lettura e visto anche che gli intrattenimenti domestici sono parecchi e variegati (lo streaming, i videocontatti, il gaming), non era così scontato che i libri moltiplicassero le vendite e, soprattutto, che nascessero nuovi lettori – una nuova, corposa categoria individuata dagli analisti è composta da lettori maschi, adulti e poco istruiti, e chi lo sa se nel 2023 saranno diventati lettori forti. 


I primi mesi del 2021 si sono chiusi con un rialzo del 26 per cento a volume e del 32 per cento a valore, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. A rendere affascinante questa fioritura è il fatto che a concorrere all’aumento delle vendite non sono stati, come sempre in passato, i megaseller, o i libri di genere: vendono sia la grande editoria che la media e la piccola, con percentuali diverse ma armoniche, sinergiche. Significa un fatto preciso: il bacino d’utenza s’è allargato. Di questo allargamento e della conseguente varietà, hanno beneficiato i canali di vendita: Amazon ha battuto tutti, naturalmente, crescendo in modo esponenziale, ma le librerie indipendenti e la grande distribuzione hanno registrato ottime performance. L’e-commerce è il primo canale di vendita, con una quota che supera il 40 per cento, al cui interno Amazon è senza dubbio dominante. 


Crescono i lettori e, di pari passo, gli autori: Gallimard, uno dei maggiori editori francesi, ha fatto sapere che per il momento non accetta più manoscritti, le case editrici italiane sono ugualmente sommerse di proposte. Un anno fa, la maggior parte degli scrittori dichiarava di non riuscire a leggere, scrivere, concentrarsi, combinare alcunché – lo faceva, senza sprezzo per la contraddizione, scrivendo lunghissimi, talvolta barbosi pezzi. 

 

Carlo Lucarelli ha detto di recente all’Ansa: “Spero che nella scrittura rimanga qualcosa del periodo che stiamo vivendo. Tuttavia, non penso che accadrà: tutto è così complesso, anche dal punto di vista psicologico, che penso che alla fine sarà più facile che salteremo andando direttamente dal 2019 al 2023”. Che dire. L’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili: il pessimista sa che è vero. 


Il pensiero sul e per il momento, a Roma, ha fatto riaprire il teatro Valle a registi e attori che, per settimane, hanno registrato i nove radiodrammi della serie “Tra scienza e fantascienza dal Valle”, tutti accompagnati da altrettanti podcast di divulgazione scientifica, con contenuti introdotti da esperti, giornalisti e scienziati. Sessanta artisti e tecnici, per giorni, sovvenzionati dal Teatro di Roma, sono ritornati al Valle, intonso, assegnato a nessun destino dopo il discussissimo sgombero di alcuni anni fa, e ci hanno registrato delle drammaturgie teatrali che, in certi casi, probabilmente, non avrebbero avuto alcuna occasione di esordire e che adesso sono podcast disponibili su Spreaker.


La trilogia di Elisa Casseri, “Il trittico delle stanze”, rappresentata finora soltanto a New York, è uno degli esempi più significativi: tre storie distinte sulla costruzione e distruzione dell’identità, dove a mettere in crisi i protagonisti è l’intervento diretto dei paradossi e dei misteri spazio-temporali. Che succede se ci si ritrova nella propria stanza senza poter uscire perché si è finiti in un buco nero? Cos’hanno da dirci, su chi siamo, sulle nostre emozioni, sul modo in cui costruiamo l’amore e l’identità, la fisica e l’astrofisica? Prendiamo dal testo teatrale di Casseri: “Sulla soglia dei buchi neri esiste una superficie limite, una regione dello spaziotempo che separa il posto da cui è ancora possibile osservare un fenomeno dal posto in cui non lo è più. Questa superficie si chiama Orizzonte degli eventi, è la bordatura dell’universo così come lo conosciamo. Si tratta di un orizzonte irraggiungibile: si allontana all’avvicinarsi dell’osservatore. Funziona come il futuro”.

 

Dice Casseri al Foglio: “Scrivere drammaturgia mi ha insegnato a lasciarmi tradire dalle mie parole. O meglio, a lasciarmi tradire dalla forma che mi sembra di avergli imposto. Il teatro è un dispositivo collettivo, quello che scrivi si nutre di corpi, movimenti, teste, direzioni, ti insegna a fidarti delle tue storie e a lasciarle libere. Partire da una trilogia teatrale e farla diventare tre radiodrammi è stata un’infedeltà a me stessa ma anche una forma di libertà che mi ha insegnato molto sulle parole che avevo scritto, grazie al dispositivo collettivo che le ha interpretate”. Con questo testo, alcuni anni fa, Casseri ha vinto il Premio Riccione, il più importante riconoscimento teatrale della drammaturgia italiana. Aveva quasi abbandonato l’idea che, presto o tardi, sarebbe andato in scena. E’ successo nella situazione più intricata possibile: nel pieno del secondo lockdown, all’interno di un teatro chiuso da anni, che il sindaco Virginia Raggi non ha nessuna idea né interesse a far riaprire.

 

La regista, Manuela Cherubini, dice al Foglio: “La relazione fra arte e scienza fa parte della mia formazione e della mia attività artistica da più di vent’anni. L’arte per me è un movimento di conoscenza della complessità, lo stesso movimento alimenta la ricerca scientifica e l’immaginazione è alla base di entrambi. La scrittura di Elisa Casseri lascia emergere lo sforzo tutto umano di ricerca di un senso nella complessità dell’esistenza, attraverso il prisma del pensiero scientifico: un incontro più che felice per me”. Sulla forma del radiodramma, ha detto: “Il teatro da ascoltare è la modalità meno tarpante rispetto all’assenza del teatro in presenza, riesce a restituire molto di più rispetto allo streaming in video: l’ascolto crea quella condizione di intimità e apertura della percezione che necessita il teatro”.


E’ un’esperienza destinata a finire con la pandemia o potrebbe tracciare un sentiero nuovo di sperimentazione artistica, che allarghi il pubblico del teatro tradizionale? E’ impossibile da prevedere, come tutto il resto. 


La voce sembra diventata centrale tanto nell’intrattenimento quanto nell’informazione, forse è il solo mezzo che, quando fa incrociare le due cose, non perde credibilità, ma a pandemia finita riusciremo a mantenere alta l’attenzione che l’ascolto richiede? Quanto il lockdown abbia inciso nelle nostre abitudini di apprendimento e coinvolgimento lo capiremo, forse, quando ne saremo usciti e riusciremo, se mai riusciremo, ad accettare che non tutto, di questo anno e più, è stato un irreparabile trauma. 


Un futuro più chiaro e certamente promettente davanti, invece, lo hanno i tutorialisti. Se prima i video di YouTube su come fare le cose erano episodici e dedicati alla soluzione di guai domestici, con la chiusura di moltissime attività, un buon numero di persone ha deciso di organizzare corsi online. Il digital divide non dovrebbe essere un ostacolo significativo: stando al Censis, nell’ultimo anno, dieci milioni di italiani hanno imparato qualcosa di nuovo in ambito digitale. Presentando il contest di Tim e Raiplay per la realizzazione del documentario “Tutto è possibile, storie di risorgimento digitale”, Riccardo Luna ha detto: “Andiamo verso un’epoca ibrida, in cui riutilizzeremo gli strumenti dell’epoca pre Covid, ma potenziati dal digitale”. 


Tamara Viola, beauty strategist e ideatrice del ciclo #truccoaggraziato, racconta al Foglio: “Tempo fa, ho cominciato a condividere attraverso le storie e i post di Instagram il mio make up del giorno, insieme a brevi consigli sull’applicazione e la cura del viso. Il risultato è stato sorprendente: attorno al mio profilo si è creata una community molto affiatata, sempre pronta allo scambio e all’interazione. Spinta da questo buon risultato, mi sono decisa ad assecondare la mia passione e ho frequentato una scuola di formazione per truccatori. Dico sempre, ironicamente, che quello è stato il mio Vietnam: lì ho capito definitivamente tutto quello che non volevo diventare. Mi spiego. Per anni, e ancora oggi anche se in misura minore, ho lavorato nella comunicazione digitale per aziende e piccole attività che si occupano di bellezza e benessere. Il loro comune denominatore è quello di toccare e amplificare le insicurezze riguardo l’aspetto esteriore con il solo scopo di vendere di più. So che le aziende non sono delle onlus, nemmeno io con la mia attività lo sono ma trovo profondamente ingiusto questo continuo mettere le persone, soprattutto le donne, davanti a standard di perfezione inesistenti, di mortificarle, di ricordare loro continuamente che sono troppo vecchie, troppo inadatte, troppo lontane da quello che i trend richiedono. I miei Corsi Aggraziati sono nati con uno scopo differente: volevo che tutte, anche chi non si è mai truccata, avessero la possibilità di sfruttare al meglio le opportunità che offre il make up, usarlo nel modo più personale possibile. E cambiare soprattutto il loro sguardo: non una ricerca matta e disperatissima del difetto del giorno, della correzione, della modifica ma un modo per osservarsi meglio, sperimentare, scegliere ogni giorno di mostrare una parte diversa di sé e tirare fuori tutte le potenzialità del proprio volto. Ha funzionato benissimo. Poi è arrivata la pandemia. Game over. Niente incontri in presenza. Occhi, viso, bocca sono diventati un territorio intoccabile, l’obbligo delle mascherine ha spento in moltissime il desiderio di truccarsi. Eppure, proprio attraverso i social, mi sono accorta che lo spirito della frivolezza era vivo. Che fare allora? Ho deciso di studiare una formula per portare i Corsi Aggraziati online. Quando ne sono venuta a capo, ho comprato una ring light, una tenda nera da studio fotografico, un power bank, uno smartphone di nuova generazione e ho lanciato tramite il mio profilo Instagram il primo corso. Era il 27 novembre 2020. Ho venduto tutti i posti a disposizione in due ore. Le lezioni sono su Zoom, il programma di base prevede l’insegnamento di un make up che in videocall funziona magnificamente. Metto insieme quattro ragazze che non si conoscono, ognuna da casa sua, ognuna dalla sua città, ognuna con i suoi prodotti. Ci trucchiamo, ridiamo moltissimo, ci scambiamo pareri, ci riprendiamo quella frivolezza che ora più che mai trovo necessaria. E facciamo pure networking: tante sono diventate partner di lavoro, hanno trovato nuove amiche, nuove collaborazioni. Da novembre a oggi, più di novanta ragazze sono entrate nella crew delle #aggraziaters: il nostro rapporto non si conclude con la lezione ma continua nei mesi. Ricevo le foto dei loro make up, consiglio prodotti, seguo i loro progressi e mi sento fierissima. Pur restando molto centrata su questo presente pandemico e con la nebulosa possibilità di un vaccino, provo a fare programmi per il futuro: un tour aggraziato che tocchi molte città italiane e poi, una linea di make up e accessori tutta mia. Non ho i soldi ma il nome sì, Tamara Viola Beauty. L’acronimo corrisponde a TVB: non è perfetto?”. 


Un’accademia in presenza, invece, è quella che un gruppo di influencer e tiktoker ha organizzato in una enorme villa in provincia di Monza: 1.300 metri quadri con 14 posti letto dove vengono ospitati ragazzi che, insieme, creano contenuti digitali, elaborano strategie per aumentare il social engagement di ciascuno e, soprattutto, studiano recitazione, canto e dizione. E’ una specie di “Amici” di Maria De Filippi, però senza le telecamere, i giudizi, la competizione, la tv. “Con la pandemia, nei rapporti e nelle relazioni è aumentato il tempo che gli italiani trascorrono sui social. Diventa quindi essenziale conquistare l’attenzione del pubblico e lo si può fare soltanto puntando sulla creatività e sui contenuti di livello. I nostri ragazzi, già geniali da soli, lavorando insieme riescono a sfruttare la forza della squadra aumentando del 15 per cento al mese la loro fanbase e le views dei loro contenuti”, ha detto all’Adnkronos Simone Giacomini, ceo di Stardust e manager degli inquilini della villa (povere creature, organizziamo dodici navette e andiamo a salvarli, assaltiamo la villa, facciamo un bagno in piscina e poi portiamoli via, riconsegniamoli a quegli sciagurati dei genitori – scusate, è un sogno pandemico di resilienza civile). 


“Vivere in una villa tutti insieme ci ha cambiato la vita, sia sui social che fuori. Avere la possibilità di fare contenuti di gruppo, in un momento i cui il resto del mondo non può incontrarsi, porta i nostri lavori in una posizione di privilegio all’interno delle piattaforme. I numeri sui social hanno subìto un’impennata per via del lockdown, ci siamo ritrovati a performare mediamente il 50 per cento in più rispetto ai numeri pre pandemia. Appena abbiamo cominciato a convivere, in qualche caso, i numeri sono migliorati del 1.000 per mille”, ha detto Alessandro Scarpa, nome d’arte (scusate) Er Gennaro, 4,3 milioni di follower su TikTok e 512 mila su Instagram. Dovremmo monetizzare questo nostro grande amore, cantavano I Cani. Questi qui monetizzano la convivenza. 


Pare che anche il bodyguard della villa abbia guadagnato seguaci: un milione e passa di anime, “sebbene abbia superato la cinquantina”, ha scritto Adnkronos. E’ un racconto dell’orrore, speriamo che almeno facciano sesso e che la notte nessuno li attacchi alle macchine per succhiare la loro forza vitale, come in “Dark City”. 


Dal primo maggio dell’anno scorso (durerà fino al 30 aprile del 2023), Action Aid manda avanti il progetto Ripartire, che ha l’obiettivo di “aumentare la partecipazione civica di ragazzi e ragazze e delle comunità educanti”. Ma vuoi mettere con la villa dei tiktoker, che peraltro accrescono la propria influenza all’incirca allo stesso ritmo con cui i miliardari accrescono la propria ricchezza: soltanto negli Stati Uniti, dal 18 marzo al 15 settembre, sono passati da 643 a 845 miliardi di dollari. Il patrimonio di Jeff Bezos, a marzo scorso, era di 192 miliardi di dollari (più del 70 per cento rispetto a sette mesi prima): è lui l’uomo che più si è arricchito durante la pandemia, l’anno perfetto per i pesci banana, i tiktoker e i paperoni.


Qualche mese fa, Antonio Scurati ha scritto sul Corriere che bisogna saper soffrire: “Tenere duro, stringere i denti, fare fronte. Non sono frasi vuote, sono l’efflorescenza linguistica di una sapienza, espressioni di un’attitudine alla sofferenza consapevole, matura, lungimirante”. Non ce lo meritiamo, signori. Meritiamo Vincenzo Cardarelli, e anche Mario Draghi, che ci rispedisce a cena fuori, a fine mese, con “prudente ottimismo”. 


Lo ricorderemo indubitabilmente come il peggiore anno della nostra vita, quello in cui si rimpicciolì tutto, tranne le distanze, la frase d’amore più importante fu “aspetto il vaccino solo per vederti”, e però Malika Ayane cantò una canzone perfetta: “Nella catastrofe siamo stati bene, a modo suo sarà per sempre, in fondo ci conviene, sarebbe bello dire per sempre, invece che dipende”. 

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.