Dal Co ci racconta Venezia e l'abbandono delle città ai tempi del virus
Contro la fuga in campagna e la “banalissima retorica” di questo tempo. Chiacchierata con “l’incurabile” dell’architettura, direttore di Casabella e maestro di maniere
E’ contro la fuga in campagna, anzi, contro la dispersione e la “banalissima retorica” di questo tempo (“Un’altra infezione diversa, ma pericolosa quanto il virus”). Ed è contro le case riprogettate a misura epidemica, stanze per la quarantena, kit di sopravvivenza: “E quale sarebbe il modello? Rebibbia o San Vittore?”. Francesco Dal Co, che è “l’incurabile” dell’architettura e non solo perché abita e insegna a Venezia (“Circondato dai miei trentamila libri, inferocito, ma docilmente, contro quei nobili che hanno scelto marxianamente di non lavorare e di lasciare decadere i loro bellissimi palazzi”), pensa che la città non è l’istituzione al tramonto che raccontano gli architetti. Sui giornali annunciano infatti la partenza per il borgo, il ritorno allo stato di natura: “Sognano il giardino di Rousseau. Nulla è più antimoderno che questa fantasia”. Direttore di Casabella – che è più di una rivista di architettura e poco meno di un romanzo –, maestro di maniere, Dal Co dice che quando è a Venezia gli manca Milano e che quando è a Milano ritorna poi a Venezia: “Tre giorni a Milano e il resto a Venezia. Spero presto di poterci rientrare”.
Passeggia e rilegge. Ma i giornali li legge? “Li leggo e mi sono anche dotato di una televisione, strumento che mi tormenta e che mi travolge con il suo fiume insopportabile di parole che accompagnano questa catastrofe”. Ad accompagnarci fuori dalle città c’è tutto un pensiero e un movimento che ragiona sui benefici non della ripartenza, ma del trasloco. Si compongono odi all’albero d’ulivo, al carrubo, aria buona e smart working. E’ pronto a tutto questo? “Anche io, che insegno all’università, sto facendo ricorso al web. Sono anche io in modalità smart working, ma non capisco tutte queste lodi. Se il lavoro era alienazione, lavorare connessi non è altro che un aumento dell’alienazione. Sembriamo turaccioli di bottiglia che galleggiano nella corrente”. E dunque, per Dal Co, che come tutti usa la tecnologia ma senza arrendersi all’esistenza via cavo, impensabile sarebbe vivere online o la scuola telematica e non perché non sia efficace, ma perché si tratta dell’edificio dove “la classe” è soprattutto relazione fra “classi” (sociali). “Sono nato in una famiglia borghese e ricordo che mia madre, ogni mattina, mi porgeva due panini. Uno per me e l’altro per il compagno più povero. Questo per dire che a scuola si conoscono le differenze sociali. Inoltre si dimentica che le famiglie vivono in spazi ristretti e che molti non hanno neppure i pc. Sento dire: si condivide. Ma cosa è questo condividere se non un condividere nel vuoto?”.
Le città potrebbero svuotarsi e non solo per la paura del virus che, avvertono, può continuare ad attaccare, ma per le difficoltà di movimento, le restrizioni che inevitabilmente ci saranno. La rivista Casabella prima di Dal Co è stata diretta, tra i tanti, da Ernesto Nathan Rogers, Franco Albini, Alessandro Mendini, Tomás Maldonado, Vittorio Gregotti, tutti uomini che hanno avuto l’ambizione di avvicinare la periferia ma mai di staccare definitivamente la città dalla campagna. “Senza città non c’è democrazia, cultura, trasformazione economica, abbiamo bisogno delle città. Basterebbe leggere qualche libro di Max Weber per ricordare che il resto è solo nostalgia”, spiega Dal Co che tra le qualità coltiva l’armonia, sostanza che gli permette di stare appartato e di sorridere quando ascolta (e siamo ancora alla retorica) il grido “Venezia sta morendo per i troppi turisti”, che in questi giorni si è però capovolto in “Venezia muore perché non ci sono più turisti”.
Insomma, con Venezia che facciamo? E qui Dal Co prende dalla sua libreria il testo di Michel Butor la “Descrizione di San Marco” e uno speciale passaggio di spensierata e provvidenziale folla che sempre si vuole perseguitare e castigare: “Tavolini, orchestrine, negozi e tutte quelle frasi e quelle lingue, per Butor, sono come le creste che un pittore usa per rappresentare un mare agitato”. E’ convinto che non è vero che si “muoia di turismo” e tantomeno nella sua Venezia che i residenti volevano già salvare con la quarantena prima della quarantena (“Dateci il numero chiuso!”) e che oggi vorrebbero invece spalancare (lo ha chiesto il sindaco Luigi Brugnaro) perché malata di solitudine. Lo sostiene da residente e aggiunge che Venezia è anche un problema più vasto, di democrazia: “Che diritto ho – io che ho il privilegio di abitare a Venezia – di impedire a un curioso di venire a vedere questo impossibile costruito sull’impossibile?”. E infatti, per Dal Co – e parliamo sempre di uomini e città e lo facciamo ancora con l’aiuto di Butor – “mentre tanti altri monumenti antichi sono così profondamente snaturati dal turista che, quando vi si avventa, sembrano essere profanati, la basilica di San Marco, al contrario, con la città che la circonda, non ha nulla da temere da questa fauna e dalla nostra stessa frivolezza; lei, la basilica, è nata, è sorta sotto il costante sguardo del visitatore, i suoi artisti hanno lavorato in mezzo alle conversazioni di marinai e mercanti…”.
Come spiegare allora questa onda che invoca la vita nei campi, dimenticando che la campagna è stata la ferocia de “Il podere” di Federigo Tozzi, come spiegare la crisi dell’idea di urbanità? Secondo Dal Co non è altro che un tentativo di rimozione, quasi freudiano: “Una reazione a quello che non si comprende. Ci si rifugia nella natura che è l’immutabile così come nella famiglia che tutti dimenticano è il luogo dove avvengono più delitti”. E lo sussurra sempre senza enfasi ma con una naturalezza che le parole scritte tradiscono. Il tono di Dal Co, malgrado la forza dei suoi ragionamenti, è quello di chi è risolto e non ammonisce ma allarga, un po’ come la sua contro-proposta di non lasciare le città e di passare al sostantivo manutenzione al posto di dispersione: “Scuole, carceri, opere pubbliche. Una grande azione di manutenzione anziché la fuga in campagna che, come scriveva Friedrich Schiller, non è che un tentativo frustrato. Aspirare alla lontananza è solo un modo per cercare di possedere il presente”.