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Le fregnacce dell'anticapitalismo

Claudio Cerasa

Perché la società del benessere ha agevolato, e non ostacolato, la protezione dei cittadini durante la pandemia

Da qualche tempo a questa parte, il dibattito pubblico del nostro paese, complice i disastri compiuti dalla Lombardia nella gestione della pandemia, si è andato a concentrare su un dettaglio truffaldino della nostra complicata e faticosa contemporaneità: l’idea che la società del benessere, ostaggio di un liberismo senza scrupoli, abbia contribuito in modo doloso a orientare le decisioni delle istituzioni pubbliche verso una direzione palesemente incompatibile con la salute dei cittadini. Secondo questa lettura dei fatti, la Lombardia sarebbe solo la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale caratterizzato da una società incapace di mettere la sacrosanta difesa dell’individuo su un piedistallo più elevato rispetto alla famigerata difesa del profitto. E se ci si presta un po’ di attenzione, dietro a ogni attacco al sistema lombardo, al netto delle ipotesi di reato che andranno accertate, si indovina anche una chiara requisitoria contro una società teoricamente plasmata sul modello senza cuore del capitalismo sfrenato.

 

Contro questa teoria – contro l’idea cioè che le grandi potenze mondiali siano incapaci di mettere la società del capitale al servizio della salute di ogni cittadino – ha scritto un editoriale da urlo il bravissimo direttore di Libération Laurent Joffrin, che proprio dalle colonne di un giornale non certo accusabile di essere al servizio del liberismo sfrenato ha messo in fila alcune argomentazioni utili a smentire una grande balla. Sentite: “Con un po’ di senno di poi, dobbiamo riconoscere che le straordinarie decisioni prese dai governi del pianeta per frenare la pandemia distruggono alcuni cliché che spesso sentiamo sulle società contemporanee. Si dice spesso che le nostre società, indebolite dalla logica della redditività, siano costantemente regredendo e stiano sempre sul punto di aggredire le protezioni e le garanzie per i nostri cittadini, sacrificando progressivamente i valori umanisti sull’altare della crescita materiale. La reazione dei governi mondiali dimostra il contrario e riflette una sensibilità alla sofferenza umana, senza precedenti nella storia, e un forte senso di protezione delle popolazioni, di fronte alla quale le considerazioni economiche sono oggettivamente svanite”.

 

Nel suo ragionamento, Joffrin offre poi uno spunto di riflessione ulteriore che riguarda una questione spesso non considerata dai professionisti del neo anticapitalismo e che ha a che fare con un dato che meriterebbe di essere valorizzato non solo durante una stagione pandemica. E la questione è questa: le società meglio attrezzate per combattere le epidemie sono quelle in cui vi è un capitalismo ben sviluppato – la tecnologia non aiuta a distruggere solo posti di lavoro, ma aiuta a distruggere anche i virus – e sono proprio le società che provano a combattere la povertà senza combattere la ricchezza quelle meglio attrezzate per proteggere i cittadini.

 

E se vogliamo tornare al nostro paese non è difficile rendersi conto di come sia stata proprio la cosiddetta selvaggia società del benessere ad aver non ostacolato ma agevolato la protezione dei cittadini durante la pandemia. Sono stati i cattivi capitalisti ad aver aiutato lo stato a finanziare il rafforzamento delle strutture sanitarie (dovrebbe essere sufficiente guardare il numero impressionante di privati che hanno donato soldi per la sanità per rimangiarsi ogni sciocchezza sulla responsabilità sociale degli imprenditori) e sono stati i cattivi capitalisti (pensate ad Amazon, pensate a Netflix) ad aver creato le condizioni per rendere più semplici comportamenti responsabili che in altri paesi meno liberi di quelli “ostaggio del capitalismo” vengono solitamente dettati dalla paura più che dalla responsabilità individuale. Il rancore verso la ricchezza non produce benessere ma produce povertà. Ce ne stiamo accorgendo tutti, o quasi, durante la pandemia, ma sarà bene ricordarselo anche quando il virus sarà solo un ricordo lontano.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.