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Siamo schiavi del futuro. Poi, per fortuna, c'è Mina

Simonetta Sciandivasci

Non abbiamo mai avuto tanto tempo e non siamo mai stati più incapaci di usarlo

C’è tempo, anche se ci sembra il contrario. Non ne abbiamo avuto mai tanto come adesso, mai più di adesso. E non perché viviamo a lungo, che è peraltro un dato traballante, ma per una ragione antica e per una nuova. Secondo Seneca il tempo a nostra disposizione sarebbe più che sufficiente a far tutto, se sapessimo usarlo. E questa è la ragione antica: l’essere umano il tempo lo perde e, peggio, lo disperde.

 

Quella nuova è che non siamo in grado di vivere il presente, di starci dentro: o evadiamo verso il passato, struggendoci di nostalgia per qualcosa che a volte neppure abbiamo vissuto e che però immaginiamo e ricostruiamo, idealizzandola, o ci proiettiamo ossessivamente verso il futuro, e le sue sfide, caricandoci di aspettative, obiettivi, sogni e scale di realizzabilità dei piani di ascesa, successo, evoluzione.

 

Non ci riconosciamo più in quello che siamo, ma in quello che potremmo diventare. Eccediamo in progettualità, la usiamo per distrarci dall’incertezza, e da uno dei nomi della vita: la possibilità. Dal 1950 al 2016, le ore che trascorriamo a lavoro sono calate, complessivamente, del 17 per cento (da 2.227 ore a 1.855) e negli ultimi tre anni non è stata rilevata nessuna inversione di tendenza. Eppure, viviamo in affanno, in ritardo, in corsa, in cerca e il tratto che più ci accomuna è la sensazione di essere stritolati dal lavoro, di non avere spazio per altro. E’ strangolamento percepito, diciamo.

 

In nessun’altra epoca come in questa che viviamo abbiamo avuto a nostra disposizione tanto tempo libero, il vero oro nero, il bene rifugio inestimabile. Eppure, non riusciamo a usarlo. L’Atlantic ha scritto che questo succede perché l’organizzazione del lavoro è caotica: la transizione da impiegati a free lance, l’assottigliamento della distinzione tra feriale e festivo, diurno e notturno, casa e ufficio, e quindi il poter lavorare a tutte le ore e dappertutto, hanno sballato l’organizzazione sincronica della società. Lo sperimentiamo ogni giorno: organizzare una cena con gli amici è un’operazione di raffinata logistica, altissima diplomazia, coordinamento aerobico tra minuscole libertà. Un’atroce trattativa che passa per molti “no, sabato lavoro” e “a pranzo? Sei matta, ho pilates!”. Slate ha scritto che il nuovo gender gap tra uomini e donne sta nel tempo libero di cui dispongono: in media, 40 ore i maschi e 30 le femmine. La fisica può dimostrarci quanto vuole che il tempo non esiste: quaggiù noi invecchiamo, sappiamo che vivi si muore ed è il tempo a darci la misura dell’inesorabilità di questi processi. Una misura che a lungo ci ha esortati a cogliere l’attimo e che adesso, invece, ci impone di capitalizzarlo.

  

  

Da che eravamo cicale, siamo diventati formiche. E in questo nostro accumulare, progettare, smaniare per preservarci dalla consunzione, evolvere, tenere il futuro sotto controllo, riusciamo a farci bloccare dal terrore di non riuscire a far tutto. La vita ci sfugge dalle mani perché siamo assillati dall’ossessione di riempirla, renderla significativa, farne un primato. L’orologio è l’ovosodo che ci si è bloccato in gola e non va né in su né in giù. Il paradosso di un tempo accelerato e insicuro come il nostro è la criminalizzazione del qui e ora. Al presente, e al fatto che restituisce la vita all’unico suo significato che possiamo sperimentare e cioè il compiersi, Ivano Fossati e Mina hanno dedicato il loro disco (e ringraziamo la moglie di lui per averlo minacciato di divorziare, in caso non avesse accettato di scriverlo). “Sono qui e per questo sono felice”. “Quello che siamo è quello che vogliamo ora”. “Nel buio del cielo là fuori è già domani, ecco perché siamo qui”. Ecco perché stiamo qui. E siamo un mare infinito di gente: naviganti, non maratoneti.

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