L'Olocausto e il senso di un cappottino rosso

Andrea Minuz

Spielberg e la Shoah. Torna nelle sale “Schindler’s List”, film giusto al momento giusto: 25 anni fa come oggi

Penso che questo sia il momento più adatto per rivedere il film, perché oggi è peggio di allora”. Venticinque anni dopo “Schindler’s List”, Steven Spielberg non ha dubbi: odio, razzismo e intolleranza sono più diffusi e radicati nella società americana rispetto ai primi anni Novanta; le statistiche parlano di un’impennata dell’odio per gli ebrei e un forte aumento dei crimini a sfondo antisemita sfociati nella strage alla Sinagoga di Pittsburgh dello scorso ottobre. Ma se dall’America passiamo all’Europa la situazione non cambia. In Italia, “Schindler’s List” torna nelle sale in questi giorni, sfruttando la coincidenza della Giornata della Memoria (potete vederlo fino a domenica 27). Quando qualche giorno fa la Universal lo ha lanciato con un post su Instagram, uno dei primi commenti è stato: “Non è una storia vera! Il film si ispira a un romanzo che vinse un premio nella categoria fiction! I sionisti hanno in mano media, cinema, televisione, libri, è ovvio che vi riempiano la testa di balle, lo fanno da quando siete nati”. Si dirà subito che non c’è da agitarsi troppo, che siamo alle solite, è tutta colpa dei social che all’epoca non c’erano. Però non c’era neanche un movimento che ha nell’antisemitismo uno dei suoi collanti ideologici; non c’era una forza politica che nel frattempo è arrivata alla guida del paese e che da anni, un giorno sì e l’altro pure, ci regala perle come, “tutto quello che sappiamo sulla Palestina è filtrato da un’agenzia che lavora per il Mossad” (Beppe Grillo, maggio 2012), “i giornali rispondono solo ai Rothschild” (Di Battista, ottobre 2018) o “i Savi di Sion controllano il Sistema Bancario Internazionale” (Elio Lannutti, senatore M5s, l’altro ieri). Magari fosse colpa dei social. Ci sarebbe sicuramente meno lavoro da fare.

 

 

Il regista non ha dubbi: odio, razzismo e intolleranza sono più diffusi e radicati nella società rispetto ai primi anni Novanta

Leopold Pfefferberg salvato da un nazista, il primo approccio cinematografico alla storia, il romanzo di Thomas Keneally

“Schindler’s List” uscì in America nel dicembre del 1993 e arrivò nei cinema italiani l’11 marzo del 1994, sulla scia di uno straripante successo di pubblico e sette statuette vinte nella notte degli Oscar. Nessuno ai piani alti della Universal avrebbe scommesso su un film in bianco e nero, su un tema del genere e della durata di quasi tre ore. In molti lo consideravano un’inevitabile passo falso di Spielberg (ma come dice lo sceneggiatore William Goldman, a dispetto di tutte le analisi, le ricerche e le previsioni di mercato a Hollywood esiste solo una regola: “Nobody knows anything”). “Schindler’s List” era invece il film giusto al momento giusto. La Guerra fredda era ormai alle spalle, la riunificazione della Germania innescava nuovi timori e preoccupazioni, la distanza storica dagli eventi della Shoah poneva il problema dell’inevitabile scomparsa dei testimoni. Soprattutto, nessuno sin lì aveva raccontato una vicenda legata alla Shoah chiedendo allo spettatore di mettersi nei panni di un tedesco iscritto al partito nazista, qual era Oskar Schindler. Un po’ come fare un documentario sui migranti con Salvini protagonista. Ma all’epoca, le parole “Spielberg” e “Olocausto” erano semplicemente inaccostabili. Si era ancora tutti travolti dal fenomeno “Jurassic Park”, uscito al cinema pochi mesi prima. Spielberg era quello di “E.T.”, “Lo squalo”, “Indiana Jones”; era il regista di quest’ennesimo luna-park coi dinosauri e tutta la caterva di merchandising a seguire. Che c’entra uno così con la Shoah? Come si permetteva questo tizio dell’Ohio cresciuto coi fumetti e la fantascienza di raccontare una storia che arriva dalla ferita più oscura e profonda della storia europea?

 

“Schindler’s List” innescò un fiume inarrestabile di discorsi e polemiche sulla legittimità di una rappresentazione “hollywoodiana” di Auschwitz. Intellettuali e cineasti europei (come Godard, come Lanzmann) invitarono al boicottaggio del film. Non era solo l’eterno snobismo della cultura europea per un film popolare e americano. In quei primi mesi del 1994, si incendiava il dibattito sull’“eccezione culturale”; la Francia si rifiutava di applicare ai prodotti audiovisivi le regole sul libero scambio internazionale ratificate dal Gatt e, a ridosso dei negoziati di Marrakesh (15 aprile 1994), si arrivò a uno scontro frontale con gli Stati Uniti; il presidente Mitterrand parlò del rischio di una “società asservita, di una Francia che non è più padrona dei propri mezzi di rappresentazione”. Prove tecniche di sovranismo cinematografico che arrivano fino alle “norme anti Netflix” di Bonisoli. “Schindler’s List” quindi non era solo l’ennesimo blockbuster americano che occupava il mercato europeo, ma un film hollywoodiano che si “appropriava” della storia europea in un momento in cui la globalizzazione metteva a rischio la difesa delle culture nazionali. Come disse in quei giorni Wim Wenders, “credo che nessuno si sarebbe sentito offeso da ‘Schindler’s List’ se il regista non si fosse chiamato Spielberg”. Eppure, non c’è niente di più “spielberghiano” della storia che sta dietro “Schindler’s List”. Tutti ricordano l’apparizione della bambina con il cappotto rosso dentro un film in bianco e nero; molti sanno che è tratto da un romanzo e forse lo hanno anche letto. Però non tutti conoscono la storia che c’è dietro. Una storia alla Spielberg, con l’uomo comune travolto da circostanze straordinarie, la chiamata fatale, la missione.

 

“I sionisti hanno in mano media, cinema, televisione, libri, è ovvio che vi riempiano la testa di balle” (un commento su Instagram)

Il film innescò un fiume di discorsi e polemiche sulla legittimità di una rappresentazione “hollywoodiana” di Auschwitz

E’ la fine di ottobre del 1980 e Thomas Keneally, uno scrittore australiano di quarantacinque anni, passeggia su e giù per il Wilshire Boulevard di Los Angeles. E’ arrivato in America con un volo dall’Italia, dove era stato invitato per una “retrospettiva sul cinema australiano” organizzata da un Festival di Sorrento e per discutere di una fantomatica “scena di Melbourne”, anche se lui è di Sydney. Giunto in Europa, il suo editore gli ha chiesto di arrivare in California per organizzare un breve tour promozionale del suo ultimo romanzo, “Confederations”, ambientato all’epoca della Guerra civile americana. In quel momento però Keneally è in cerca di una valigetta: “Gli italiani mi avevano regalato un’enorme pila di scartoffie sul loro cinema e provando a infilarle tutte nella borsa si era rotta la cerniera”. Si ferma davanti alle vetrine di Handbag Studio, un negozio di pelletteria dalle parti di Rodeo Drive a Beverly Hills. Il proprietario è in piedi sull’uscio del negozio, lo invita ad entrare: “Venga a vedere, ho il meglio… Honk Kong, Italia… il meglio”. Keneally si convince a entrare e la sua vita sta per cambiare per sempre. Il proprietario si presenta col nome di Leopold Page ma, come spiega poco dopo, il cognome che aveva quando viveva a Cracovia era Pfefferberg. L’acquisto va un po’ per le lunghe, c’è un problema di collegamento con la Mastercard australiana, i due iniziano a chiacchierare. Quando Leopold Pfefferberg scopre che l’uomo di fronte a lui è uno scrittore, gli chiede di fermarsi: “Conosco una storia straordinaria. La racconto a tutti gli scrittori e gli sceneggiatori che passano qui. Gente della televisione, giornalisti del Los Angeles Times, produttori…”. Keneally pensa al solito mitomane, anzi immagina che Los Angeles sia piena di gente così, persone che non hanno la minima idea di quanto tempo sia necessario per scrivere un libro, che non sanno nulla di diritti, editor, case editrici, che credono che la storia del loro zio eccentrico sia fondamentale per l’umanità, che bisognerebbe farci un film. Pfefferberg però non gli racconta la storia di un suo zio eccentrico: “Io e mia moglie Misia siamo stati salvati da un nazista; ero un ebreo imprigionato con gli ebrei e invece vengo salvato da un nazista e questo salva anche la mia giovane moglie. Non che fosse un santo, intendiamoci, anzi era un nazista, era uno che beveva forte, un contrabbandiere, un donnaiolo, okay? Ma ha tirato fuori Misia da Auschwitz, quindi per me è Dio. Mi creda, le sto offrendo la più grande storia di umanità”.  Pfefferberg racconta che da anni prova a convincere qualcuno a fare un film sulla storia di Oskar Schindler. Alla metà degli anni Sessanta riuscì a coinvolgere un produttore della Mgm e Howard Koch, lo sceneggiatore di “Casablanca”. All’epoca Schindler era ancora vivo, abitava a Francoforte, squattrinato e sostenuto da qualche donazione dei suoi ex prigionieri sparsi nel mondo. Ci furono ricerche, viaggi in Europa, visite in Israele. Pfefferberg acquisì tutte le testimoniane degli ex deportati, vari documenti, materiale fotografico. La Mgm comprò la storia per cinquantamila dollari, e Schindler spese quasi tutta la sua parte in una giornata trascorsa a Parigi. Come spesso succede, il progetto naufragò lentamente e il film si inabissò. La storia di Oskar Schindler circolò in un qualche articolo di giornale, ma niente di più. Pfefferberg conservò tutta la documentazione e quel giorno nel suo negozio convinse Keneally a portare con sé il materiale fotocopiato. Due anni dopo, Thomas Keneally pubblica “Schindler’s Ark”, il suo sedicesimo romanzo, con cui vince il Booker Price. Il libro finisce in prima pagina sul New York Times. Poco dopo arriva la proposta della Amblin, la casa di produzione di Spielberg, decisa ad acquistare i diritti. In quel momento impazza la mania per “E.T.”, ennesimo, stratosferico successo al box-office di Spielberg che ha fatto vendere una valanga di “M&Ms”, le caramelle che Elliott lascia nel bosco per attirare E.T., e commosso mezzo mondo. Pfefferberg insiste su Spielberg, che considera l’uomo giusto per portare al cinema la storia di Schindler, l’unico che saprebbe raccontarla a tutti. Anche Keneally si convince, ma il film slitta anno dopo anno. Nel frattempo, girano vari nomi dietro al progetto: si pensa di affidarlo a Scorsese, Billy Wilder, Roman Polanski. Spielberg ha sempre detto che non si sentiva pronto per affrontare un tema del genere. I dieci anni di gestazione di “Schindler’s List” sono anche una lenta presa di coscienza della sua identità ebraica. Tra i momenti che lo hanno convinto a girare il film, Spielberg rievoca una proiezione di “Shoah”, nel 1985, il documentario di nove ore di Claude Lanzmann, costruito come una estenuante ricognizione sui luoghi dello sterminio e sui ricordi, i volti, le voci dei sopravvissuti. “Shoah” è “un’opera d’arte, un documento storico e un monumento”, dirà la critica. Solo che nel cinema di New York dove lo proiettano, Spielberg nota che il pubblico abbandona la sala dopo un’ora. “Shoah” è un film radicale, un film sulla morte. “Schindler’s List” è un film su quella speranza che incomprensibilmente si fa strada quando tutto sembra perduto. Soprattutto, “Schindler’s List” è un film di Spielberg, quindi tutto si esprime solo attraverso le immagini e l’azione: “Non conosco l’Olocausto a colori; non c’ero all’epoca, ma ho visto dei documentari sull’argomento; sono tutti girati in bianco e nero e quello è stato il mio unico punto di riferimento: volevo che sembrasse reale”. Ma reale per Spielberg significa “cinematografico”. Quando Keneally gli chiede di intitolare il film “Schindler’s Ark”, come il suo romanzo, Spielberg risponde: “E’ un bel titolo, ma al cinema una metafora non si vede, la lista invece sì, la vedono tutti”.

 

E’ questo il senso di quello che divenne subito il simbolo del film, la bambina con il cappotto rosso. Sino a quel momento della storia, Schindler è un cinico imprenditore arrivato nella Polonia occupata dai nazisti per fare affari e avvalersi della manodopera ebrea. La guerra è un’opportunità e Schindler vuole sfruttarla fino in fondo. Ma di fronte a questa macchia di colore rosso che irrompe nella violenza anonima del massacro del ghetto di Cracovia cambia tutto. Da lì in poi, Schindler si impegnerà per salvare quanti più ebrei possibile. Perché? In un film scritto male o in una brutta fiction italiana, questa scena sarebbe stata il famigerato momento dello “spiegone”. Schindler torna a casa, si siede al tavolo in cucina con le mani tra i capelli, ha una crisi di coscienza, spiega alla sua fidanzata che al ghetto ha visto delle cose orribili, che non si può andare avanti così, che bisogna fare qualcosa, eccetera, eccetera. In un film di Spielberg, no. Basta un’immagine. E quell’immagine si incarica di farci vedere un processo mentale, non di spiegarcelo. Il processo con cui Schindler esce dalla routine della guerra, della violenza, dell’egoismo, dello sfruttamento degli ebrei. Schindler smette improvvisamente di vederli come dei numeri, delle ombre, delle sagome; esce dallo schema mentale dell’altro tedesco del film, Amon Goethe (lo spietato nazista interpretato da Ralph Fiennes) che uccide a caso i suoi prigionieri sparando dal balcone. Schindler invece “vede” qualcosa e ora sa cosa quello che deve fare. Grazie al cielo, non sappiamo perché. Sappiamo solo che la sua vita, come quella di Keneally quando entrò nel negozio di Pfefferberg, cambierà per sempre.

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