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L'integrazione è un lavoro

Lorenzo Borga e Greta Ardito

Cosa si rischia con il decreto Salvini? Viaggio nell’Accademia del centro di accoglienza per richiedenti asilo di Bergamo: agli immigrati si insegnano regole e ci si prepara a lavorare

Il complesso residenziale di via Gleno a Bergamo ospita un centro di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo (Cas) e l’Accademia dell’integrazione. Siamo a pochi minuti dal centro storico di una delle città simbolo dell’operosità lombarda. In effetti, è impossibile scindere il progetto sperimentale di integrazione promosso dal comune di Bergamo dalle peculiarità del tessuto cittadino: un tasso di disoccupazione trascurabile, un conglomerato di imprese sempre alla ricerca di lavoratori, una fitta rete di volontariato e una tradizione di accoglienza ormai trentennale. A fare da cicerone è Christophe Sanchez, capo di gabinetto del sindaco Giorgio Gori (Pd) e vero ispiratore dell’Accademia. Con un passato da autore televisivo e una permanenza in Ghana, Sanchez ci invita subito a registrare la differenza tra la facciata dell’Accademia e il resto del Cas: non ci sono abiti appesi ad asciugare alle finestre, nessuno a ciondolare sui balconi. E’ la prima lezione: all’Accademia il decoro è fondamentale. Entrati nel suo ufficio, si nota subito un armadio in cui gli allievi hanno riposto i cellulari: potranno riaverli soltanto nella pausa pranzo e la sera.

 

Frutto della collaborazione tra comune, Confindustria, Caritas e la cooperativa Ruah, ospita 30 allievi maschi, richiedenti asilo

Per i primi trenta allievi è già stata trovata una sistemazione: “Un’azienda molto grande offrirà il tirocinio a tutti”

Frutto della collaborazione tra il comune di Bergamo, Confindustria, Caritas e la cooperativa Ruah, l’Accademia dell’integrazione ospita dalla fine di settembre 30 allievi maschi, richiedenti asilo tra i 18 e i 40 anni provenienti in larga parte dall’Africa subsahariana. L’esperienza dell’Accademia dura un anno e nei primi sei mesi è densa di impegni: sveglia alle 6 e mezza dal lunedì al sabato, pulizia delle camere e dei bagni, lezioni di lingua e cultura italiana, volontariato, educazione fisica e altre attività. Seguirà poi nei tre mesi successivi un periodo di formazione professionale e infine un tirocinio in un’azienda bergamasca.

 

Il modello Accademia, ci racconta Sanchez, nasce come risposta alle inefficienze del sistema tradizionale. “Chi lavora nell’accoglienza non ha alcuno strumento legale per obbligare i richiedenti asilo a fare qualcosa: possono anche decidere di starsene tutto il giorno a letto. Se non vogliono andare a lezione di italiano nessuno può costringerli, non c’è modo per impedire che vadano a bighellonare. Ecco perché io e Giorgio [Gori, ndr] abbiamo cominciato a immaginare un sistema diverso”. Un sistema incardinato sull’adesione volontaria a un insieme di regole. “Gli allievi fanno una scelta, con cui manifestano il desiderio di integrarsi, di capire chi siamo, come viviamo e pensiamo”. Un’inversione del paradigma dell’accoglienza, che non può limitarsi a “dar da mangiare e da dormire”, ma deve sposare il principio del do ut des. Infatti l’Accademia è anzitutto un progetto economico: l’impegno della struttura nell’arco di un anno non è garantire un permesso di soggiorno, ma formare persone che possano ottenere un contratto di lavoro. “E’ un obiettivo win-win: i ragazzi vincono la prospettiva di un lavoro, le aziende vincono perché trovano personale preparato, la comunità vince perché ci sono meno persone destinate a spacciare o a lavorare in nero”. E di fronte a chi storce il naso ricordando che l’accoglienza deve essere votata alla solidarietà, Sanchez è netto: “Io non credo che un mondo fondato sulla gratuità possa durare a lungo, la solidarietà va sostenuta”.

 

Dopo un processo di selezione, i candidati allievi entrano in Accademia per un periodo di prova di tre settimane, durante il quale hanno occasione di toccare con mano l’esperienza. “Non tutti si adattano”, ci spiega Sanchez, “la vita quotidiana è dura, sei sempre in servizio, questi ragazzi non stanno mai senza fare niente”. Al termine del periodo di prova i richiedenti asilo sottoscrivono un patto e diventano ufficialmente allievi, con tanto di cerimonia. “Adesso stiamo selezionando il secondo gruppo, nel corso del 2019 gli allievi raddoppieranno. E gli ospiti del Cas bussano alla porta per venire da noi”.

 

I richiedenti asilo seguono tre ore e mezza di italiano ogni mattina dal lunedì al venerdì, con l’obiettivo di raggiungere un livello linguistico A2. D’altronde in Accademia si parla soltanto italiano, anche se per gli operatori sarebbe più agevole rivolgersi a loro in inglese o in francese. “Non conoscere la lingua di un paese significa essere prigionieri, alla mercé di persone che possono ingannarti sul contratto di lavoro o che parlano alle tue spalle. L’italiano è senza dubbio un presupposto per l’integrazione, ma è soprattutto ciò che può rendere questi ragazzi liberi”.

 

Ma l’insegnamento della lingua non è tutto: i partecipanti al progetto seguono anche lezioni di educazione formale, in cui imparano alcune regole di convivenza civile non scontate per loro, come l’uso del lei, parlare a bassa voce sui mezzi pubblici, chiedere informazioni o lasciare il posto agli anziani in autobus. Tutte situazioni che vengono simulate in un laboratorio teatrale, per renderle automatismi. E’ anche così che l’Accademia combatte il razzismo, mettendo in atto esempi quotidiani.

 

Alla fine delle lezioni di italiano si svolge l’adunata. Con la schiena dritta, gli allievi formano due file compatte lungo il corridoio e recitano in coro: “Allineamento a destra. Allineamento in verticale. Riposo. Noi siamo gli allievi del primo corso dell’Accademia dell’integrazione. Grazie Bergamo. Grazie Bergamo. Grazie Bergamo. Numerosi sono i rimandi all’estetica militare: adunate, ispezioni, cerimonie, tutto in Accademia è scandito in modo ciclico, anche per internalizzare le abitudini. Sanchez mostra le camere dei ragazzi: i letti sono rifatti allo stesso modo, gli armadi organizzati nello stesso modo. Tutto deve essere pulito e ordinato. Le divise degli allievi sono blu ed esibiscono il tricolore e lo stemma della città; c’è poi la tuta del volontariato, quella dello sport e l’abbigliamento da libera uscita, anch’esso uguale per tutti. “Lo scopo è creare un’identità forte e questo spirito di corpo si sviluppa soltanto se l’esperienza è intensa”. In effetti anche il sistema di responsabilità è molto rigido. Ogni settimana viene scelto un capoclasse, che è responsabile per i suoi compagni: in assenza di operatori o educatori è lui a prendere le decisioni e a vigilare sullo svolgimento delle attività. Del resto l’Accademia chiede molto, ma offre altrettanto: “nel momento in cui ricevi la divisa, entri a far parte di una famiglia”. Una famiglia allargata, per sentirsi meno soli e sopperire a quella lasciata nei paesi d’origine. Abdou Sambou, 28 anni dal Gambia, ci racconta di essere sposato: “Ho due figlie di sei e tre anni. Ci sentiamo tutti i giorni, mi piacerebbe farle venire qua”. Anche Ebrima Touray, un altro allievo gambiano di 19 anni, ha dovuto separarsi dalla madre, il fratello e la sorella.

 

E’ ora di pranzo: i pasti si svolgono in una stanza luminosa al limitare del piano, non è permesso mangiare in camera o nei corridoi. Mentre ci incamminiamo Sanchez ci spiega che i progressi degli allievi sono monitorati costantemente. Il giovedì è la giornata delle pagelle, che riportano i giudizi di italiano e le valutazioni degli operatori. Si può ricevere un richiamo per piccole inosservanze, come aver lasciato il letto o l’armadio in disordine o schiacciare un pisolino durante la pausa pranzo, oppure per trasgressioni più gravi, come il rientro in Accademia oltre le 22 o la mancanza di rispetto nei confronti dei compagni o degli operatori. Chi ottiene più richiami rischia di perdere il weekend. Ogni dettaglio è rendicontato nella scheda di valutazione, che viene discussa individualmente e in gruppo con i ragazzi. “Tutto questo richiede tempo, richiede sforzo. Se vediamo che un ragazzo sta accumulando ritardo rispetto ai compagni, interveniamo per colmare il divario. Passiamo tanto tempo con loro, e i ragazzi sono consapevoli di trovarsi in un sistema dove le persone si preoccupano davvero del loro benessere”.

 

Verrebbe da pensare che una routine tanto severa non consenta agli allievi nemmeno un momento di svago in cui rompere le righe. Ma non è così: nelle pause giocano a biliardino, guardano la televisione, o leggono fumetti (rigorosamente in italiano). E il lunedì sera cantano: imparano l’inno, “Generale” di De Gregori e anche canzoni della loro terra.

 

La differenza dalle ordinarie esperienze di integrazione si apprezza visitando il Cas, che si trova accanto all’Accademia e ospita 290 richiedenti asilo. Il passaggio è una porta discreta, quasi nascosta, che mette in comunicazione le due realtà. Una comunicazione non sempre facile. Le regole imposte in Accademia non sono comprese dagli operatori dell’accoglienza, ma gli organizzatori rispondono netti: “E’ come per la scuola dell’obbligo: un diritto ma anche un dovere. All’Accademia non facciamo integrazione con lo scambio multiculturale, ma con l’insegnamento dell’italiano, le regole e il lavoro”. Attraversiamo la porta e la prima differenza è l’odore acre, dovuto alle pulizie meno frequenti (gli allievi dell’Accademia se ne occupano autonomamente, risparmiando sui costi). Dopo aver bussato, entriamo in una stanza: i richiedenti asilo sono nel letto e le tapparelle sono abbassate, e l’unica fonte di luce è l’illuminazione degli smartphone. Sono le 13. In cucina è in corso la distribuzione del cibo, lo stesso servito qualche minuto prima in Accademia. Qui però i richiedenti asilo possono portare il cibo in camera. Alcuni parlano fra loro. “Non è italiano”, sottolinea sibillino Sanchez.

 

Nel Cas la libertà è assoluta. Ma affiora un dubbio: è vera libertà quella che non ti rende libero? Nei centri ordinari normalmente non si impara l’italiano a un livello accettabile, né ci si forma per un lavoro. Una volta fuori, i migranti si scopriranno molto meno liberi di quanto non siano oggi. Non è un caso che decine di loro si prestino volontari all’esperimento dell’Accademia, alla ricerca di regole e appartenenza al gruppo. Ce lo confermano loro stessi. Abdou Sambou racconta: “Quando ero nel Cas non andavo a scuola e durante la giornata stavo al cellulare o giravo per la città con i miei compagni”. Le regole gli piacciono, perfino svegliarsi alle 6 ogni mattina. Mentre parla, il suo compagno De Graft Boateng, 19enne dal Ghana, annuisce: “Prima non capivo nulla di italiano, mentre ora imparo. Nel Cas normale mangiavo e dormivo tutto il giorno, e mi svegliavo a mezzogiorno. Qui in gruppo stiamo bene insieme”. Eppure i due modelli hanno lo stesso costo. Entrambi si reggono esclusivamente sui 35 euro al giorno per immigrato stanziati dalla prefettura e sono gestiti dalla stessa organizzazione.

 

Torniamo in ufficio. Gli allievi ora si apprestano a seguire l’incontro per comprendere i dettagli della condizione normativa dopo il decreto sicurezza voluto da Matteo Salvini. Il ministro dell’Interno non ha mai visitato la struttura, ciononostante si percepisce la sua presenza in ogni angolo. Tutti i richiedenti asilo sanno chi è, alcuni di loro seguono le sue dirette Facebook per conoscere il proprio destino. E’ l’elefante nella stanza, il suo nome pesa tanto che si fatica a pronunciarlo. Il decreto da lui firmato va in direzione opposta rispetto all’esperienza dell’integrazione-con-regole dell’Accademia. In primo luogo, taglia i fondi: la spesa giornaliera per migrante viene ridotta a 26 euro. Inoltre, diminuisce dell’80 per cento le possibilità di ricevere il permesso umanitario. Così gli irregolari potrebbero aumentare: solo a Bergamo, secondo Sanchez, saranno “350 in più”, tra cui anche quasi tutti gli allievi dell’Accademia. Il sindaco Gori aveva proposto, nel corso del dibattito parlamentare, un emendamento al decreto per garantire il permesso a chi compie un percorso simile a quello dell’Accademia: con un contratto di lavoro o di tirocinio, un livello A2 di italiano e dopo almeno 100 ore di volontariato il richiedente asilo avrebbe potuto avere accesso a un permesso temporaneo, ma l’emendamento era stato bocciato dal Parlamento. All’Accademia però non si scoraggiano. “Noi stringiamo i denti” ci dice il sindaco “alla fine del loro percorso i ragazzi dell’Accademia avranno un regolare contratto di lavoro e saranno in grado di mantenersi. Confidiamo pertanto che i tribunali, se non le commissioni territoriali, individuino lo strumento per salvaguardare la loro condizione. L’alternativa è buttare queste persone in mezzo alla strada, ed è evidente che sarebbe un’assurdità”. Perché Salvini ha scelto questa strada? “Il disegno politico della Lega, ora che gli sbarchi sono ridotti ai minimi termini, sembra quello di aumentare le criticità sui territori, riducendo le situazioni legali e aumentando gli irregolari, visto che i rimpatri rimangono al palo. Dunque ci saranno più emarginazione sociale, più degrado e più comportamenti illegali. E’ una chiara strategia della tensione per tenere alto il livello di allarme su immigrazione e sicurezza, temi su cui la Lega ha costruito la propria rendita elettorale”. Per il suo capo di gabinetto “comunque sia, è meglio continuare. Qua imparano un mestiere e l’italiano, e anche se dovranno vivere da irregolari almeno avranno a disposizione questi strumenti. Faranno gli elettricisti in nero, come tanti italiani. Piuttosto che vederli spacciare o mendicare preferisco questo”.

 

In città non tutti sono però soddisfatti. In particolare le critiche arrivano dalla Lega, che il 4 marzo a Bergamo ha conquistato quasi il 29 per cento dei voti. “Vedo nell’Accademia soprattutto punti di debolezza”, ci dice Enrico Sonzogni, commissario provinciale del partito “in particolare per l’emendamento proposto al decreto sicurezza. E’ sbagliato, perché significa scavalcare la commissione e garantire il permesso di soggiorno a chi non ne ha diritto. Se fosse stato approvato, tutti i richiedenti si sarebbero proposti per l’Accademia. Inoltre, bisogna prima prendersi cura delle persone nate in Italia. I nostri ragazzi nelle valli faticano a trovare lavoro, molte aziende se ne sono andate, la disoccupazione è al 6-7 per cento [ndr, per Istat in provincia è stata al 4 per cento nel 2017]. Perché la Caritas e Confindustria non si occupano anche di loro?”. In realtà i numeri, proprio di Confindustria, mostrano che in provincia di Bergamo nel 26 per cento dei casi le aziende hanno difficoltà a trovare personale adatto quando offrono posti di lavoro. C’è carenza non solo per le attività più qualificate, ma anche per mestieri che richiedono meno competenze, come operai edili, metalmeccanici ed elettrotecnici. Proprio le posizioni che andrebbero a occupare gli allievi richiedenti asilo.

 

Il decreto ha anche rischiato di abbattere la forza di volontà degli allievi. Arianna Pirotto, operatrice della cooperativa Ruah, ci racconta di Mandjang, ragazzo senegalese che proprio il giorno della nostra visita ha ricevuto il primo diniego da parte della commissione: “Per qualche giorno starà con il capo chino, ma anche grazie al gruppo ritroverà la speranza”. Lo testimoniano gli stessi allievi, quando chiediamo ad alcuni di loro se sono ottimisti. Sambou non potrebbe essere più chiaro: “Io ho ricevuto il rifiuto della richiesta e ora sto facendo ricorso, ma in Accademia seguiamo le regole e la legge italiana; e se seguiamo la legge, Dio può aiutarci”. Ma se non dovessero ricevere il permesso di soggiorno le prospettive sono fosche. Una volta respinti dalla commissione territoriale e perso il ricorso in tribunale, i migranti ricevono l’ordine di lasciare il paese e non possono più lavorare legalmente, né rimanere nelle strutture di accoglienza. Diventano invisibili. Per la legge italiana non esistono, ma restano nelle città perché nessuno li espelle.

 

Questa condizione porta svantaggio sia a loro sia alla popolazione che li ospita, che percepisce un aumento dell’insicurezza. Una percezione che diventa realtà secondo i dati. Per la Fondazione Hume, gli stranieri irregolari delinquono circa 34 volte tanto rispetto ai residenti. La differenza non sembra dipendere dal paese di origine o da elementi culturali, ma dalla condizione legale e sociale in cui si trovano. Isaac Yeboah, 19 anni dal Ghana, sorride per tutta l’intervista ma si incupisce quando parla di cosa farebbe se non dovesse ottenere il permesso: “Ho viaggiato sei anni per arrivare in Italia. Durante il viaggio ho perso mio padre. Sono entrato in Accademia per aiutare la città e spero che ora la città aiuti noi ad ottenere i documenti. Mi piacerebbe fare il magazziniere”. Se così non fosse, ci confida che lavorerebbe in nero perché è l’unica scelta possibile.

 

E’ il lavoro il metodo di integrazione più efficace. Per questo in Accademia la formazione professionale sarà centrale. Sanchez ci rivela che per i primi trenta allievi è già stata trovata una sistemazione: “Non posso dirvi il nome, ma si tratta di un’azienda molto grande che offrirà il tirocinio a tutti, e forse il contratto”. Oggi i richiedenti sono già occupati per 16 ore a settimana in attività di volontariato, principalmente per la pulizia dei parchi cittadini. Così gli allievi imparano le regole da rispettare in un luogo di lavoro. Arrivare puntuali, rispettare i colleghi, comprendere le gerarchie e le divisioni di ruoli, competenze che spesso mancano. Un altro obiettivo è far incontrare città e Accademia. Farle conoscere e comunicare. Per questo, gli allievi indossano divise e i cittadini li riconoscono e spesso si complimentano. Mentre talvolta vengono denigrati dai propri connazionali: “Siete sfruttati dai bianchi” dicono. Nel frattempo i progetti in cantiere sono tanti, tutti a costo zero: per esempio un percorso di alternanza scuola lavoro per studenti delle superiori che faranno da guide nelle vie della città agli allievi.

 

“Gli allievi fanno una scelta, con cui manifestano il desiderio di integrarsi, di capire chi siamo, come viviamo e pensiamo”

Il decreto Salvini riduce la spesa giornaliera per migrante a 26 euro e diminuisce le possibilità di ricevere il permesso umanitario

La giornata volge al termine. Uscendo dalla struttura sentiamo urla fragorose provenienti dal Cas: alcuni richiedenti asilo stanno litigando animatamente in una lingua africana. Una circostanza impensabile entro le mura dell’Accademia.

 

Nonostante alcune criticità, quello di Bergamo è un programma pronto per essere esportato. “Abbiamo ricevuto interesse da tutta Italia”, afferma Sanchez dirigendosi verso il parcheggio. Replicare il modello richiede però due condizioni. Da una parte è necessaria una realtà economica in cerca di nuova forza lavoro, anche poco qualificata. Dall’altra serve un’equipe che vi si dedichi. L’organizzazione dell’esperienza e la formazione degli operatori sono fondamentali: “qui a Bergamo tutto quello che facciamo è monitorato e verbalizzato, sia i progressi degli allievi sia le spese e le attività. Lo facciamo proprio per generare know-how”.

 

E sulla diffusione si trova d’accordo anche Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi ed esperto di politiche migratorie. “Il modello dell’Accademia di Bergamo è giusto: dotare l’accoglienza di un’organizzazione forte, facendo perno sull’ordine e in cui il richiedente asilo non sia abbandonato”. Qualcosa di simile a quanto avviene in Germania, dove l’accoglienza ha uno stretto legame con i centri per l’impiego. Continua Villa: “Servono più diritti e più doveri, proporzionati gli uni agli altri. Bergamo ribalta il paradigma: aumenta la qualità dei servizi ma limita la libertà dei richiedenti asilo coinvolgendoli in percorsi di integrazione veri. Assomiglia al “modello Riace”, ma è più virtuoso e organizzato. L’unico limite che vedo nell’esperienza è l’alto livello di impegno richiesto agli allievi, che può funzionare solo in un contesto di adesione volontaria”.

 

L’Accademia per l’integrazione di Bergamo è partita ma è già messa a dura prova dal decreto Salvini. Nonostante la tenacia dei suoi promotori, non sarà facile sopravvivere al calo dei finanziamenti, alle pressioni politiche opposte e alla riduzione dei permessi. Un decreto volto a “rafforzare la sicurezza pubblica” rischia di mettere i bastoni fra le ruote a un’esperienza di integrazione basata sul volontariato e sul lavoro. A causa di quell’elefante nella stanza – il ministro Salvini – che a parole si batte contro i delinquenti e la malavita, ma nei fatti ne alimenta la sopravvivenza con un nuovo esercito di invisibili pronti, per necessità, a rinfoltirne le fila. Futuri lavoratori in nero, ladruncoli o disoccupati invece di muratori, sarti, panettieri e magazzinieri. A Bergamo e in tutta Italia.

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