Bambini in un campo rom installato dal giugno 2015, sotto il Boulevard Gateway a Parigi (foto LaPresse)

Nomadi e alieni

Michele Magno

Rom, sinti e caminanti. Lo stigma dell’incapacità di civilizzarsi, della dedizione al furto e all’accattonaggio. Ha radici lontane il pregiudizio antizigano

Il loro Olocausto: oltre mezzo milione di morti non ha lasciato quasi traccia nei documenti, nei libri, nella memoria collettiva

C’erano una volta le ruspe, poi venne il censimento etnico, infine si invocò il rispetto della legalità e l’applicazione del codice penale. Tirate le somme, con gli zingari a Matteo Salvini non è andata così bene come con i “negher”. Ma guai a farsi illusioni. Il tema è stato posto, e il già alto indice di gradimento per il leader leghista si è impennato. La campagna contro i reietti delle baraccopoli non è stata una bolla di sapone. Qualcuno ricorda la poesia (forse) di Bertolt Brecht? “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, / e fui contento, / perché rubacchiavano. / Poi vennero a prendere gli ebrei, / e stetti zitto, / perché mi stavano antipatici. / Poi vennero a prendere gli omosessuali, / e fui sollevato, / perché mi erano fastidiosi. / Poi vennero a prendere i comunisti, / e io non dissi niente, / perché non ero comunista. / Un giorno vennero a prendere me, / e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Sono versi che si ispirano a un sermone del pastore protestante Martin Niemöller, vibrante di sdegno per l’apatia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa al potere di Hitler. L’incipit allude all’accusa di Wandertrieb, istinto al nomadismo, rivolta agli zingari dal Terzo Reich. Schedati fin dal 1938 dalle SS di Heinrich Himmler, dopo il “decreto Auschwitz” (dicembre 1942) furono internati e sterminati nei lager. “Porrajmos” (nella lingua romaní, devastazione, divoramento) è il termine con cui rom e sinti designano il loro Olocausto, ma oltre mezzo milione di morti non ha lasciato quasi traccia nei documenti, nei libri, nella memoria collettiva. In uno striminzito paragrafo, sono appena menzionati negli Atti del processo di Norimberga. Né sono in disarmo le ricerche etnografiche che li rappresentano come un esotico residuo premoderno della civiltà umana.

   

 

“Diverso radicale”: anche se in Italia da generazioni, è sempre un gradino al di sotto di qualsiasi etnia nella scala del disprezzo sociale

L’altra faccia del pregiudizio antizigano riguarda i carnefici: cioè, potenzialmente, tutti noi. Soprattutto quando non riusciamo a controllare il fondo oscuro delle nostre paure più profonde, di cui si nutre lo stereotipo dello zingaro come “diverso radicale”. Anche se stanziale, anche se insediato in Italia da generazioni, nella scala del disprezzo si ritrova sempre un gradino al di sotto di qualsiasi etnia venga a occupare i piani bassi nella gerarchia dei migranti. Una marginalità sociale che spesso lo spinge ad accettare – e, in qualche caso, perfino a esibire con orgoglio – il ruolo che gli viene attribuito, cioè di praticare il furto e l’accattonaggio molesto. “In ogni periferia metropolitana, ai confini di ogni città, vicino a una discarica, a un cimitero, a uno scarico industriale, quasi sempre sotto la massicciata di una tangenziale o di uno svincolo autostradale o di una ferrovia, o anche sulle sponde di un torrente o di un canale, là dove la comunità urbana finisce e accumula i propri rifiuti solidi e umani, si trova un campo […]. Sono i monumenti moderni all’esclusione, che le nostre amministrazioni locali -spesso senza distinzione di colore politico- sono andate costruendo a perenne monito circa la loro cultura dell’accoglienza”. E’ il ritratto di un inferno dantesco che risale a vent’anni fa, ma sembra scritto ieri (Marco Revelli, “Fuori luogo, Bollati Boringhieri, 1999).

   

Secondo il Report 2017 dell’Associazione 21 luglio, tra le più impegnate nella tutela dei loro diritti, sono ventiseimila i rom e sinti che vivono in emergenza abitativa, circa un sesto del totale stimato dal Consiglio d’Europa, di cui solo una piccola frazione è nomade. La metà sono cittadini italiani. Rom, nella lingua romaní significa uomo o marito. Sinti, invece, è un termine appartenente allo spazio linguistico teutonico. Studi recenti hanno confutato la tesi secondo cui deriverebbe dalla regione del Sindh (ora pakistana). In breve, si parla di rom nell’Europa orientale e meridionale, di sinti nei paesi di lingua tedesca (e in parti dell’Italia settentrionale, del Belgio, dell’Olanda), di kalé in Spagna e in Provenza, di ciganos in Portogallo, di manouches in Francia e di manichals in Gran Bretagna. Zingaro (o zigano), invece, è una denominazione estranea ai rom. La sua origine è incerta. Probabilmente deriva dal greco antico Athinganoi (una setta agnostica dell’Anatolia), oppure dalle parole persiane cinganich (musicista, danzatore) o asinkan (bottega del fabbro). In base al mestiere svolto, si possono chiamare anche calderas (fabbricanti di pentole), lautari (fabbricanti di liuti), lovara (allevatori di cavalli), camminanti (venditori ambulanti e arrotini). In Italia il gruppo più consistente è quello dei rom, a cui si fa cenno in una cronaca bolognese del 1422. Ai rom di più antico insediamento, provenienti da Grecia e Albania, si sono aggiunti quelli provenienti dalle ondate migratorie originate dalla guerra nella ex Jugoslavia e dal crollo del mondo comunista.

  

In Italia il gruppo più consistente è quello dei rom, a cui si fa cenno in una cronaca bolognese del 1422. Ma non sono un popolo omogeneo

Resta il fatto che i rom non costituiscono un popolo omogeneo. Le comunità sono fortemente differenziate e hanno conosciuto nei secoli molteplici mutamenti nelle relazioni con le società con cui sono entrate in contatto. Uno dei più importanti repertori del “sapere” intorno a questa minoranza è la letteratura europea, ricca di figure zigane. In molti grandi romanzi la trama si sviluppa grazie a figure femminili che conducono i protagonisti maschili nelle zone di confine dell’esistenza. Simili costellazioni di significati si ritrovano nella bella Preciosa della novella “Gitanilla” di Cervantes (1613), nell’infantile e romantica Mignon degli “Anni dell’apprendistato di Wilhelm Meister” di Goethe (1795-1796), nella seduttiva Carmen di Merimée (1845). Nel corso dell’Ottocento, tuttavia, l’immagine dominante è stata quella dello zingaro affetto da un’innata incapacità a civilizzarsi, che lo contrapponeva ai gagé (in romaní, non-rom). Uno stigma teorizzato da Johann Gottfried Herder nel saggio “Idee per la filosofia della storia dell’umanità” (1784-1791), in cui l’allievo di Kant si scaglia contro “un’abietta casta indiana, la cui nascita è estranea a tutto ciò che è noto come divino, decente, civile, e la cui infima condizione rimane tale dopo secoli”. I successivi ideologi della razza e i leader nazionalsocialisti si potevano dunque riallacciare senza soluzione di continuità a una lunga tradizione di “fantasie di emarginazione e di annientamento” (Karola Fings, “Sinti e rom. Storia di una minoranza”, il Mulino, 2016).

   

Apparsi nel Vecchio continente agli albori dell’anno Mille, la storia remota degli zingari è avvolta nella nebbia, quella recente è complessa e sfuggente. Attraverso la Persia e l’Armenia si infiltrarono nell’impero bizantino e giunsero nel Peloponneso già nel Quattordicesimo secolo. Uno dei loro principali centri si trovava a Modone (ora Methoni), sulla costa della Messenia, nella Morea sud-occidentale. La località era ben nota ai viaggiatori perché tappa tra Venezia e Giaffa nei viaggi in Terrasanta. La presenza degli zingari è attestata anche in altri territori dei domini di Bisanzio: a Creta e Corfù; in Valacchia, Moldavia, Serbia. Le attività artigianali in cui erano specializzati li rendevano utili ai mercanti di mezza Europa. Divenuti più forti demograficamente, furono pronti per la successiva penetrazione verso ovest, sospinti anche dalla pressione turca e dalla caduta di Costantinopoli (1453). Il loro arrivo nei Balcani risale all’inizio del Trecento. Solo con la successiva espansione dell’impero ottomano cominciò la diaspora verso l’Europa occidentale. Si trattava di spostamenti di interi clan, nei cui itinerari si mescolavano il movente religioso offerto dal pellegrinaggio ai luoghi di culto e il movente economico, per mettere a frutto la loro maestria nella lavorazione del ferro e dei metalli; e anche per chiedere aiuti e sussidi, spesso concessi da autorità desiderose di liberarsi dagli invadenti visitatori. L’imperatore Sigismondo (1361-1433) ne permise il passaggio in Ungheria e in Boemia per raggiungere la Germania. Si definivano pellegrini in compimento di voti, vestivano miseramente ma i capi ostentavano un certo sfarzo; generalmente poveri, ma non di rado provvisti di oro e argento, osservanti di riti cattolici, poliglotti. Dalla Germania gli zingari passarono in Francia e in Spagna; altri gruppi si diressero verso il nord d’Italia; altri ancora verso le isole britanniche, dove rimasero stabilmente, e verso la Scandinavia, la Polonia, la Russia.

 

La loro comparsa alle porte delle città provocava inevitabilmente, per la foggia degli abiti e il colore della pelle, curiosità e stupore. Un testimone oculare, Andeas Pressbyter di Regensburg, nel 1424 narra che erano sospettati di essere al servizio di potenze straniere (l’Egitto e l’India), di tradire i precetti cristiani e di praticare arti magiche come la predizione del futuro. Una diffidenza ripresa dai cronisti della prima età moderna, i quali nei loro scritti riflettevano le angosce dei contemporanei di fronte alla rovina dell’ordine costituito, alla delegittimazione della chiesa di Roma, alle scorrerie dei turchi e alle indomabili epidemie di peste. Il risultato fu che i rom vennero bollati come spie. Non fu più garantita loro alcuna protezione, fu ordinata la loro espulsione e vietati nuovi ingressi; inoltre, si stabilì che ogni atto violento nei loro confronti, compreso l’omicidio, non fosse perseguibile. Lo status di fuorilegge dei rom restò formalmente in vigore sino alla dissoluzione del Sacro romano impero nel 1806.

 

Le riforme di Maria Teresa d’Austria per renderli sudditi della monarchia asburgica. Un movimento per i loro diritti civili

Nella novella citata, Cervantes così dipingeva l’opinione popolare sugli zingari della sua epoca: “Sembra che gitani e gitane non siano sulla terra che per essere ladri; nascono da padri ladri, sono educati al furto, s’istruiscono nel furto e finiscono ladri belli e buoni al cento per cento”. Solo nel Settecento qualche governante tenterà di sostituire ai divieti polizieschi un’integrazione imposta dall’alto, ma con risultati discutibili. Fu l’arciduchessa d’Austria Maria Teresa (1717-1780), simbolo di un “assolutismo illuminato”, a progettare la trasformazione dei rom in sudditi della monarchia asburgica. In conformità ai suoi decreti, dovevano diventare stanziali, rinunciare alla lavorazione dei metalli, praticare l’agricoltura e pagare le tasse. A tal fine, per i bambini era prevista un’educazione cristiana presso le famiglie dei contadini ungheresi in cui venivano preparati alla coltivazione dei terreni. Non è facile fare un bilancio di queste riforme, proseguite anche con Giuseppe II (1741-1790), il figlio di Maria Teresa. Nel Burgenland, regione di confine tra Austria e Ungheria, esse portarono alla creazione di insediamenti permanenti nei quali i rom costituivano un’alta percentuale della popolazione. Non fortuitamente furono subito presi di mira e smantellati dal regime nazista.

 

All’inizio del Terzo millennio c’è stato un cambio di passo nei movimenti per i diritti civili dei rom. Nel 2004 è stato creato l’European Roma and Travellers Forum, un organo che, con il rango di legittima rappresentanza istituzionale, interloquisce con il Consiglio d’Europa e ha voce in capitolo nelle sue decisioni. Quanto siano stati positivi i provvedimenti adottati per migliorare la situazione del “popolo degli alieni” è questione controversa. Ciò vale anche per programmi ambiziosi come “Il decennio dell’inclusione dei rom 2005-2015”, finanziato dalla Banca mondiale, dall’Unione europea e da fondazioni private come la Open Society Foundations. Intimoriti dagli effetti sociali della crisi economica, molti governi sono andati a caccia di voti denigrando i rom e intensificando le misure di segregazione o di espulsione. In Italia, sta accadendo esattamente questo. Chi è stato premiato dalle urne il 4 marzo scorso adesso minaccia di ripulire il paese anche dagli zingari “irregolari”. E’ propaganda di basso conio, ma ad alta redditività elettorale. Non basta pertanto reagire denunciando le pulsioni xenofobe e razziste del Carroccio. E’ necessario mettere in campo analisi più documentate e meno “sentimentali” della condizione dei rom, corredate da proposte serie e realistiche. Lo spirito del tempo non sembra propizio a un’impresa del genere. Ma le congiunzioni astrali possono cambiare, e dare una mano a chi crede che in politica risolvere i problemi difendendo la dignità delle persone sia ancora la strada giusta.

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