Riccardo Pozzoli (in questa foto postata su Instagram) è stato fidanzato, e manager, anche di Chiara Ferragni. Ora dirige il social Lisa di Vogue

Palcoscenico Instagram

Fabiana Giacomotti

La dittatura dell’immagine. Guarda, correggi (con la chirurgia plastica), copia l’influencer per un selfie

La valorizzazione dell’incompetenza, comfort zone dell’ignorante medio e leitmotiv di quella che nei mesi scorsi è stata la campagna elettorale più mediocre di sempre, ha trovato il proprio terreno di coltura ideale nel social media più frequentato dalla moda, Instagram, e la sua declinazione più mistificatoria nel boom di richieste adolescenziali alla chirurgia plastica. Scopo ultimo è garantirsi non tanto bellezza o armonia, quanto la loro migliore rappresentazione, cioè il selfie da centomila like, che porterà il fortunato possessore di un nuovo naso o delle labbra più carnose di sempre non tanto ad assomigliare a Gigi Hadid o Kendall Jenner, ideali irraggiungibili e che per di più lavorano senza tregua su set fotografici e passerelle, ma all’influencer del liceo che ora, almeno in apparenza e segnatevi subito il concetto perché andremo ad esaminarlo per le prossime dodicimila battute, la sfanga vivendo alle spalle di hotel di lusso, prodotti di bellezza da cinquecento euro a fialetta e stilisti di fama internazionale in cambio, sempre in apparenza, di un semplice post.

 

Scopo ultimo è garantirsi non tanto bellezza o armonia, quanto la loro migliore rappresentazione, cioè il selfie da centomila like

Nel livellamento progressivo delle caratteristiche utili a emergere in un mondo che premia il successo personale e immediatamente visibile, le riviste di moda e i rotocalchi che un tempo rappresentavano lo specchio delle ambizioni popolari sono stati sostituiti dal social dell’immagine istantanea, dai suoi sacerdoti e dai suoi sogni di gloria al prezzo di un filtro colore e di una ritoccatina al naso. Mirko Scarcella, semi-ignoto stratega social di Gianluca Vacchi, quel cinquantenne di membra compatte che da qualche anno si fa fotografare in slip bianchi e tacchi alti sulla tolda del suo yacht, ha appena dato alle stampe un libro in cui rivela come emulare le gesta del suo protetto pur senza il suo conto in banca ma, anzi, conquistandolo. Il volumetto si intitola “Instasecrets. Crea la tua idea, costruisci il tuo impero, realizza il tuo sogno”, si accompagna al profilo social dell’autore, a sua volta in slippino iconico benché nero, e distilla massime apodittiche quali “l’autenticità” come unico criterio per affermarsi sul social. “Comunichi solo ciò che sei”, afferma Scarcella, che sarebbe opinione condivisibile se, tre righe dopo, non ci suggerisse come usare filtri e applicare tecniche correttive fai-da-te per migliorare il selfie o la foto scattata dall’amico che ci ritrae in un momento socialmente rilevante della nostra giornata, mandando quindi l’autenticità dell’assunto iniziale a farsi benedire, in serena e plateale contraddizione, eppure a suo modo e certamente in forma inconsapevole, con un fondo di verità: la verità della mistificazione di cui Instagram è lo specchio più potente e feroce che sia mai stato creato da quando Elisabetta I già sessantenne disseminava l’Inghilterra e i domini assicurati alla corona da sir Francis Drake dei suoi ritratti adolescenziali o Napoleone I si faceva ritrarre da Canova nei panni di Augusto imperatore.

 

La realtà di Instagram non esiste, e non è forse mai esistita un’immagine reale, una riproduzione esatta della realtà. La mediazione della mano che dipinge, dello scalpello che modella la pietra, della camera oscura e della macchina da presa sono più che sufficienti a modificare quel che l’occhio dovrebbe percepire, come peraltro l’etimo del sostantivo immagine rende già evidente (la contiguità del latino “imaginem”, “imitaginem” o meglio ancora “mimaginem” sulla base della radice greca “mimos”, imitare). L’immagine riprodotta è ab origine imitazione della realtà o di quella che noi presumiamo o vogliamo che sia. Da qualche tempo a questa parte, questa nostra immagine è manipolabile in pochi minuti e in totale autonomia. Dunque, perfino il dibattito in corso sulle fake news, pur apparentemente condivisibile, logico e scontato, in realtà si scontra con un tasso di ostilità inevitabile, per non dire fisiologico, perché tutti siamo produttori di fake news, e la nostra prima falsa notizia siamo noi. Noi con la funzione “portrait” per ingrandirci gli occhi e allungare le gambe. Noi che, Arthur Schopenhauer l’aveva già intuito quasi duecento anni fa, siamo per noi stessi “quanto c’è di più reale nel mondo che esiste sol nella nostra rappresentazione”, ma che adesso, duecento anni dopo, possiamo dare di noi al mondo l’immagine che vogliamo. Nello iato fra il corpo reale e ideale su cui ragionava il filosofo si è infilato, suadente come il serpente biblico, il filtro “slumber” per cancellare le occhiaie, e il miraggio di una vita di lusso con scarsa o zero fatica se avremo la costanza di cancellarle in via definitiva. Photoshop ci permette di modificare la realtà e lo usiamo spesso senza ritegno (gli instagrammer moltissimo, come dimostra il crollo verticale dei follower di Kim Kardashian dopo l’uscita di una sua foto non ritoccata nelle parti sensibili); dunque, siamo ipoteticamente più interessati che indignati quando scopriamo che, combinando software e funzioni diverse, possiamo addirittura creare il video falso di una persona vera.

 

Lo specchio più potente e feroce della mistificazione. Possiamo creare il video falso di una persona vera (vedi certi discorsi di Obama)

Che il mondo si sia riempito di filmati  YouTube nei quali Barack Obama pronuncia con la propria voce e movimenti labiali perfettamente coerenti discorsi mai tenuti non ci riempie di indignazione, come sarebbe naturale, bensì ci instilla il dubbio, e forse anche il desiderio, di capire se anche noi, in un prossimo futuro e a prezzo equo, potremo disseminare il web di feste e anniversari rivisitati e di speech aziendali degni di figurare nel curriculum di Richard Thaler. Nel grande gioco delle fake news chiunque di noi ha la sua piccola, infinitesimale parte. Per questo, e per trarne il meglio visto che tenersene fuori è ormai diventato praticamente impossibile a meno di non rivestire cariche istituzionali o militari che richiedono la massima segretezza e una parvenza di invisibilità, sarebbe utile che queste regole, con le loro trappole e i loro infiniti inghippi, diventassero merce comune e condivisa almeno quanto le loro promesse.

 

“Nel mio studio arrivano sempre più spesso ragazzini in crisi di identità, che vorrebbero assomigliare all’instagrammer, famoso e coetaneo, di cui spiano ossessivamente la vita su Instagram”, racconta il chirurgo plastico Antonio Spagnolo. Pochissimi di loro, pochissime anche, sognano una carriera da attore, da cantante, cioè quel genere di fama che si conquista, di certo non solo ma anche grazie a un talento riconosciuto e per ottenere il quale bisogna sudare, prepararsi, studiare. Cercano il successo facile, immediato. L’obiettivo è quello tracciato da Paris Hilton ancora quindici anni fa: la carriera del famous for being famous, e se non si hanno i soldi per costruirla, come lei o come Vacchi, socio non operativo dell’azienda di famiglia, un’immagine adeguata per ottenerla. “Li accompagnano i genitori, questi ragazzini malati di notorietà a basso voltaggio, spendibile con un clic, e ci fosse mai una volta che si domandassero se siano tenuti a spendere migliaia di euro per rifare il naso, gli zigomi o il seno ai propri figli. Lo danno per scontato entrambi. Poco tempo fa”, racconta Spagnolo, “si è seduta di fronte a me una liceale apatica, dallo sguardo vitreo, ossessionata dai selfie che, diceva, “non le riuscivano bene”: aveva appena subito un intervento di rinoplastica, a mio giudizio più che riuscito, eppure riteneva il risultato indegno di una foto da pubblicare sul suo profilo Instagram. Fosse stato per lei, sarebbe tornata sotto i ferri un minuto dopo, con il consenso della madre”. Spagnolo dice di invitarli tutti ad accomodarsi, questi genitori “privi di autorevolezza” con i loro figli “che vogliono tutto e subito, senza nemmeno contemplare lo studio, la crescita e l’esperienza come passaggi naturali e fondamentali di una carriera”; ma non ci sono dubbi che, per uno o dieci come lui, altri cento senza scrupoli siano più che disposti a intervenire su una forma fisica, quando sarebbe necessario farlo su quella mentale, compresa, scusate per quella che può suonare come una battuta non particolarmente riuscita, quella dei genitori.

 

Stampa patinata in crisi. Condé Nast presenta il suo “prodotto interamente social”: Lisa, ovvero “ama, ispira, condividi, consiglia”

Eppure, al di là di ogni valutazione sul ruolo dell’immagine nella società di oggi e sulla sua manipolazione, sulla contiguità fra le fake news per così dire di interesse pubblico e le nostre, erogate sotto traccia ipoteticamente solo fino a quando un eventuale successo di follower e in prestigio economico permetterà di trasformarle in strumenti di lavoro e in piattaforme di interesse generale, questi ragazzini perduti, questi lost children rispondono a un diktat di successo che noi stessi, genitori di un’epoca narcisista, abbiamo loro imposto. Siamo noi ad aver alimentato l’ansia di riuscire che li assale, noi ad aver proiettato su di loro le nostre ambizioni quando non ce l’abbiamo fatta. Abbiamo dato loro tempi, modi, comportamenti, vizi. Anche quello di non leggere, anche quello di trascorrere intere giornate a sbirciare le vite degli altri sui social. La crisi della lettura, la crisi delle riviste tradizionali è evidente anche attraverso questi ragazzi che si precipitano dal chirurgo plastico non con la fotografia di una modella strappata da una rivista femminile, ma con l’immagine di una influencer salvata nello spazio “link” di Instagram e di cui osservano con avidità e invidia le occasioni mondane a cui partecipa, le sfilate alle quali assiste e in quali città, gli aerei privati sui quali vola verso la destinazione esotica, il red carpet inarrivabile, il festival del cinema blindato eccetera eccetera, in un crescendo inestricabile di realtà e di sogno, di like comprati e di borsette prese a prestito. Che queste immagini possano essere manipolate o pietosamente uguali le une alle altre (pochi giorni fa, il musicista Hiérophante ha messo a nudo, e in fila, i cliché iconografici nei quali indulgiamo convinti della nostra originalità, dalla foto del passaporto prima di imbarcarci al trompe l’oeil in cui sosteniamo la Torre di Pisa con la forza delle mani) pare argomento poco o per nulla interessante rispetto all’opportunità di dare corpo – un corpo bello, opportunamente ricostruito e “filtrato” – al desiderio della “vita in vacanza” degli Stato Sociale e senza un filo della loro amara ironia.

 

Lo specchio più potente e feroce della mistificazione. Possiamo creare il video falso di una persona vera (vedi certi discorsi di Obama)

Le parole non hanno nulla da dire, quindi parlano, scriveva Giorgio Manganelli. Le immagini avrebbero troppo da dire, dunque si nascondono , vorremmo aggiungere noi. Si nascondono agli occhi di chi le guarda, non svelano mai integralmente il proprio mistero. Questa vita per immagini, con una breve didascalia a suggerire, più che a illustrare, la “instalife”, è diventata anche l’ultimo rifugio di una stampa patinata in crisi irreversibile di identità, e non è un caso che la prima a virare decisamente sul ruolo dei millennial e il loro potere economico, benché e ancora molto presunto, sia stata Condé Nast, la casa editrice che più di ogni altra dipende dalle vendite di beni di consumo voluttuari, come prodotti di bellezza, abbigliamento e accessori. Dopo aver chiuso tutti gli allegati e gli spin off cartacei di Vogue, qualche sera fa a Milano ha presentato agli utenti pubblicitari un “prodotto interamente social” e “platform free”, cioè non agganciato a un portale ma diffuso unicamente sui social e, in futuro, su Spotify: Lisa, acronimo di “Love, Inspire, Share, Advise”, cioè “ama, ispira, condividi, consiglia”. “Leggi” e “cerca di capire”, in questo mondo millennial, dal consumo immediato e il calo d’attenzione drammaticamente veloce, non sono argomenti contemplati o condivisi, mentre lo sono “la forte componente visiva”, che è l’argomento agitato nella presentazione, qualunque cosa voglia dire e comunque questa “componente” possa essere manipolata, contraffatta, costruita. Alla direzione creativa di Lisa è stato chiamato Riccardo Pozzoli, il trentenne che per anni, da fidanzato e poi da manager di Chiara Ferragni, ha sviluppato la piattaforma che è alla base del suo successo imprenditoriale. Nessun collaboratore supera i trent’anni di età. Tutti vengono allevati in casa, anzi, “in house”: influencer che sviluppano non articoli o testi, ma “contenuti”. Fatti per essere guardati, guardati, guardati. Senza porsi mai nessuna domanda.

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