Alcune delle manifestanti del collettivo "Non una di Meno" (foto LaPresse)

Asia Argento e l'8 marzo "contro il patriarcato" sono attese in Iran

Giulio Meotti

Fuori dalla bolla occidentale, dove le femministe marciano con il cappellino rosa e le orecchie da gatto, le donne devono battersi per un diritto che nel 1978 era dato come acquisito. Quello a non indossare il chador

Roma. “Non una di meno”, recita lo slogan con cui oggi le sigle femministe celebreranno l’8 marzo in manifestazioni, cortei e scioperi. “Insieme contro il patriarcato”, ha scandito l’attrice Asia Argento, uno dei volti più noti della campagna #MeToo. “Finiamo quello che hanno iniziato le suffragette” è il motto a Londra. Nelle strade di Parigi non c’è aria di festa: “Le 8 mars n’est pas une fête”. Forse per riprendersi dopo la battaglia epocale contro la tassa sugli assorbenti, in America le femministe hanno individuato un obiettivo più raffinato: la mostra dedicata a quel tombeur sessista di Giacomo Casanova che sta facendo il giro degli Stati Uniti. Ma fuori dalla bellissima bolla occidentale, dove le femministe marciano con il cappellino rosa e le orecchie da gatto, le donne devono battersi per un diritto che nel 1978 era dato come acquisito. Quello a non indossare il chador, il velo islamico. E’ la sorte nel 2018 delle decine di ragazze iraniane arrestate dal regime degli ayatollah per essersi tolte in pubblico il drappo che la teocrazia dei mullah ha imposto loro.

 

Almeno 33 donne, riferiva ieri la Cnn, sono in manette per aver preso parte alle proteste dalla fine di dicembre, quando un’ondata di dimostrazioni antigovernative ha lasciato il posto a una protesta pubblica contro il velo. Agitano un hijab bianco in cima a un bastone. Molte di loro ora sono minacciate di essere sfregiate con l’acido, di stupro e di tortura. Alcune rischiano una condanna a dieci anni di carcere per “incitamento alla prostituzione”. E’ una battaglia libertaria che dovrebbe essere impugnata e brandita con orgoglio dalle femministe occidentali. Ma ha ragione Alain Finkielkraut quando in Francia dice che sono delle “giocatrici scorrette” che non ammettono di aver vinto la propria battaglia culturale e che continuano come se non avessero incassato diritti, rispetto e posti in prima fila.

 

Così, le attrici e le femministe che si rifanno una verginità con #MeToo ignorano la sorte delle ragazze iraniane costrette al “sigheh”, il matrimonio a scadenza, giusto la durata della copula, per non commettere il reato di adulterio; quelle che, per preservare la propria verginità, prima del matrimonio fanno solo sesso anale; quelle che scelgono la imenoplastica (ricostruzione dell’imene) e che comprano i “kit della verginità”, capsule di liquido rosso che si rompono durante la prima notte di nozze. Ma se le nostre femministe volessero una battaglia più vicino alla propria bolla ci sono sempre le donne turche. Il presidente Erdogan ha appena comunicato che il paese ha un grave problema da risolvere: l’adulterio. E se il Bosforo fosse ancora troppo in là, potrebbero guardare all’Europa. In Gran Bretagna, un nuovo caso di mutilazione genitale femminile viene scoperto ogni ora, secondo nuove statistiche del National Health Service inglese. In Germania, la ong Terre des Femmes ha affermato che 13 mila ragazzine sono costrette a subire questa brutale deturpazione. Pochi giorni fa è emerso un rapporto secondo cui nella periferia di Parigi il trenta per cento delle ragazze musulmane ne è minacciato. Com’era quella, il “corpo delle donne”?

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.