Umberto Galimberti - foto Getty Images 

L'intervista

Genitori, non fate gli amici dei figli. Il consiglio di Umberto Galimberti

Marianna Rizzini

Tra docenti assaliti da padri e madri, figli sfiduciati, cellulari pervasivi: "In classe farei spegnere il telefonino a tutte le età, ma non lo si può vietare in sé. Non vedo purtroppo rimedio al danno pazzesco creato dall’abitudine allo schema binario tipico del telefonino: sì-no". Colloquio con il filosofo e saggista

La scuola e la famiglia, i genitori che si fanno sindacalisti dei figli e aggrediscono i docenti, il rapporto di fiducia che non c’è più. È la foto di una doppia impotenza, la fine della delega o la rinuncia allo sforzo di educare alla responsabilità? Ed è davvero tutta colpa dei social network? Ne abbiamo parlato con il professor Umberto Galimberti, filosofo, psicoanalista, saggista, editorialista di Repubblica. “Faccio una premessa”, dice Galimberti: “La scuola italiana ha i suoi mali: non educa, al massimo quando ce la fa istruisce. Educare vuol dire seguire i ragazzi nei loro processi psicologici, cosa impossibile finché si avranno classi da trenta alunni invece che da quindici. E poi: nel percorso formativo del docente inserirei un test di personalità per cercare di assicurarsi che sia dotato di empatia. Senza empatia non arrivi al cuore. Platone diceva che la mente non si apre se prima non si apre il cuore”. Detto questo, “la famiglia in questo momento è un disastro”.

 

 

“Molti genitori”, dice Galimberti, “non sanno gestire il rapporto con i figli, forse perché non sanno che con i figli devono parlarci prima che inizi l’adolescenza, per creare un rapporto di fiducia prima dei dodici anni. Invece i padri non parlano perché si annoiano, e le madri parlano per raccomandarsi a livello fisico: metti il maglione, asciuga i capelli. Non fanno mai domande che riguardino la psiche, per esempio: ‘Sei felice?’. Una domanda semplice che potrebbe innescare una riflessione”. Dopo i dodici anni, “per una ragione fisiologica, la comparsa della sessualità”, spiega il professore, “i ragazzi abbandonano il mondo genitoriale, dove l’amore è incondizionato, per passare all’amore orizzontale del mondo dei coetanei, condizionato dal reciproco vantaggio. Sigmund Freud lo diceva in modo truce: a quell’età i ragazzi devono ammazzare il genitore per potersi dare forza. E allora bisogna saper tollerare che a volte il figlio sbatta la porta. Se la famiglia non contiene, il figlio finisce per manifestare il complesso edipico in altro modo e contesto, dalla curva nord all’occupazione”.

 

 

Come contenere, è il problema. “Il genitore deve sapere che, dopo i dodici anni, la sua parola non è più efficace”, dice Galimberti. “Serve l’esempio. Ma purtroppo oggi l’esempio è disastroso, se si pensa ai tanti cinquantenni dall’atteggiamento giovanilistico. E nelle tante separazioni che vediamo, ai figli spesso si spiega ragionevolmente che mamma e papà non vanno più d’accordo, ma poi si ingaggia una guerra con i figli strumentalizzati in mezzo. Questo genera enorme sfiducia nei confronti del mondo genitoriale, anche se certo è un bene che ci si separi, piuttosto che far vivere i ragazzi nella tensione o nell’indifferenza cinica reciproca”. Altro atteggiamento dannoso: “Diventare amici dei propri figli. Un padre deve mantenere l’autorità che gli deriva dall’autorevolezza. Stessa cosa per il professore”.

E però il professore spesso viene contestato proprio dai genitori. “A molti genitori importa soltanto che i figli siano promossi, non educati. Sostituendosi al figlio, il genitore gli impedisce di vivere il rito iniziatico del confronto diretto con il docente. Il professore, dal canto suo, deve parlare con gli studenti, ascoltandoli con competenza”. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara vuole mettere un freno ai cellulari in classe: “In classe li farei spegnere a tutte le età, ma non si può vietare in sé a un figlio di possedere il cellulare, legato alla socialità e ormai pervasivo. Non vedo purtroppo rimedio al danno pazzesco creato dall’abitudine allo schema binario tipico del telefonino: sì-no. Disabituati a pensare in modo complesso, come si può poi affrontare la complessità del reale?”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.