Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier ricevono il premio nobel per la chimica per la scoperta del metodo di editing del genoma Crispr/Cas9. (foto di Ansa)

Uno schiaffo alla lagna

Prima la pandemia, ora la guerra. Chiavi per una rinnovata fiducia nel domani

Antonio Pascale

La retorica senza tempo dell’apocalisse: si può forse essere ottimisti nei confronti del futuro? Sì, basta guardare ai risultati della ricerca scientifica e dell’innovazione, e pure al confronto e alla posta in gioco nel voto francese

Le elezioni francesi, con lo scontro tra due idee di mondo e dunque con ognuno dei candidati che ha messo in scena le ragioni che rendono l’azione politica degna di essere vissuta, mi ha fatto venire in mente il film Manhattan: nel finale il protagonista, lo stesso Woody Allen, metteva su un breve (e diventato famoso) elenco delle cose per cui vale la pena di vivere. Erano tutte – diciamo così – di stampo umanistico e, per esempio, la rubrica comprendeva Groucho Marx, Joe DiMaggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong, i film svedesi, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Woo… il viso di Tracy, che poi era la diciassettenne che il protagonista prima scarica poi corre a riprendersi.

 

In un impeto di egoismo e spinto anche da una epifania, comprende che l’innocenza è meglio di certe sovrastrutture nevrotiche – o meglio questa è la giustificazione che si dà il protagonista. All’epoca, un’appassionata di Woody Allen gli fece notare che nell’elenco mancavano i figli – come dire, non c’era il futuro, tutto lo sguardo di Allen era concentrato sull’estetica del contingente. Va bene, poi Woody Allen ha rimediato con i figli, e tuttavia, siccome ognuno trova ragioni per vivere, nell’elenco di cui sopra scorgo anch’io una mancanza: non ci sono formule matematiche, scoperte della biologia, innovazioni scientifiche, vaccini, antibiotici, tecniche per la produzione energetica e opere ingegneristiche, di cui peraltro New York è piena. Niente di male – qualcuno dirà, ma si era nel 1979, il film è in bianco e nero, quasi come se il regista volesse fermare il tempo, cristallizzare le immagini – ma ora non è forse il caso di introdurre nell’elenco altre ragioni? Per esempio, affiancare – faccio per dire – al meraviglioso Cézanne alcune scoperte della chimica che ci hanno dato nuovi modi per produrre i colori e tante e diverse sfumature di tonalità?

 

Il fatto è che l’elogio del futuro è sempre sgradevole e se qualcuno ti dà del paraculo ottimista che guarda la luna e ignora il dito fratturato o monco che la indica, ha pure ragione. Come hanno ragione quelli che sostengono che davvero sia azzardato e miope elaborare scenari meravigliosi che da qui a domani renderanno la vita degna di essere vissuta. Consideriamo poi i recenti fatti, per esempio la rinascita di alcuni guerrafondai alla Putin. Nonché un egoismo diffuso che aleggia anche nei paesi benestanti di cui prendiamo visione ogni giorno e a qualunque ora. Egoismi, ipocrisie che mettono a rischio ogni disegno di un futuro ideale, e pure l’altruismo, utilissimo per collaborare, e insomma fare la pace e non la guerra.

 

Tra l’altro, un esempio di queste spiacevoli tendenze si può vedere nei talk in tv: si invoca la pace ma in realtà si fa la guerra. Molti opinionisti per esporre le ragioni a sostegno della propria tesi si dichiarano a favore della pace, e questo è ovvio, nonché lodevole, però è difficile soprassedere su un punto: a parte la loro comodità, la postura, cioè starsene seduti a casa o su un divano, ben illuminati, con la sicurezza di tornare a casa sani e salvi e dirigersi al ristorante una volta finito il talk, fa impressione che da una parte si invochi la pace e dall’altra ci siano una vemenza, un astio, una tale arroganza e un narcisismo che te li raccomando. 


Vuoi il tono, vuoi la semplificazione, vuoi il gusto della battuta e della comparazione coatta e considerato l’ardore con il quale alcuni opinionisti da talk difendono la propria posizione, senza fare sconti all’avversario seduto con lui nello studio, se ne deduce che semmai fossero al posto di Putin e Zelensky altro che collaborazione, farebbero la guerra senza se e senza ma, bombarderebbero e affonderebbero. 


Capite? Da una parte si dispensano consigli: se io fossi in lui farei così, e cioè mi arrenderei, tratterei, riconoscerei gli errori della Nato e altre facezie, dall’altro ci si innervosisce, ci si insulta: dunque, nella sostanza, alcuni opinionisti parlando di pace, combattono strenuamente per difendere il proprio posto in tv, la poltrona da opinionista, la riconoscibilità al bar nonché l’annessa vanità. Ne consegue per esempio che loro possono combattere in tv, e per ragioni futili, il leader ucraino no. Poi ci sarebbe da esaminare il sondaggio del Pew Research Center, che vede l’Italia seconda solo alla Grecia in Europa per fiducia in Putin, ma tralasciamo e torniamo al punto: fatta dunque la tara, individuati gli egoismi reciproci, le nostre opere vanitose in tv, tuttavia, a distanza di 40 anni e passa, non sarebbe il caso che tutti noi aggiornassimo l’elenco e introducessimo alcune innovazioni scientifiche che contribuiscono ad allargare il campo?  In fondo anche queste scoperte sono frutto di uno sguardo curioso, eccentrico, a volte bizzarro che ci rende persone pacifiche e collaborative – e non sostenitori di stati frutto poi di guerre, questioni mai chiarite, identità traballanti e vecchi ordinamenti ottocenteschi, ma cittadini fluidi che attraversano i confini alla ricerca di mani con cui stringere nuovi patti.

 

La bellezza salverà il mondo è uno di quello slogan diventato virale, e che andrebbe riscritto, anche per salvare la sua trattazione originaria: la ricerca di rimedi salverà il mondo. Finché sarà possibile, ovvio, poi finirà, no? Cosa dobbiamo ricercare? Per gran parte della storia, l’arte ha assunto venature tragiche, producendo capolavori e concentrando la nostra attenzione sul seguente tema: come fare a sopportare questo dolore? Troviamo molti esempi a partire da una certa poetica espressa con forza nella tragedia greca: lo vogliono e lo chiedono gli dèi, a noi umani, miseri, non resta altro da fare che seguire le loro obbligazioni e chiederci come sopportare il conflitto in atto, e senza porci troppe domande. Poi qualcuno, Socrate in testa, sì è chiesto se fosse il caso di cambiare il focus. Non più come sopportare il dolore, ma come superarlo. Insomma, la ricerca del rimedio. Ragioniamo, discutiamo con metodo certosino e il mondo migliorerà e il risultato ci donerà un senso concreto di felicità. Un afflato più grande del solito respiro.

 

Ricordo che all’ingresso di un piccolo borgo del sud c’era una statua della Madonna. Di tanto in tanto qualcuno disegnava sul suo volto delle lacrime. Mamma – chiedevo da bambino – perché la Madonna piange? Perché – mi si diceva – muoiono i bambini, ogni bimbo che muore è una lacrima sul volto della Madonna. L’usanza sembra frutto di tradizioni desuete, ma in fondo esprimeva un dato fattuale: fino a pochi decenni orsono, l’alta mortalità infantile rovinava molti dei nostri momenti migliori (per parafrasare i Pooh) e legami familiari. Ora la Madonna non piange più, almeno non per i bambini, perché i vaccini, gli antibiotici, il notevole miglioramento dell’alimentazione, qualche pratica igienica elementare e le fognature e i bagni piastrellati hanno ridotto quasi a zero e in molta parte del mondo la mortalità infantile – ci sono ancora una dozzina di paesi con alta mortalità infantile, ma anche lì la strada per non far piangere la Madonna si sta via via asfaltando. Insomma, rimedi. Certo, la Madonna ancora non ride – per dirla alla Troisi – ma di sicuro piangiamo di meno, perlomeno non ci disperiamo e non accettiamo come fato avverso, quasi ovvio, la morte di un bambino.

 

Rimedi: ovvero come superare il dolore, una specialità tutta dei sapiens, e che comunque ha richiesto tempo per affinarsi. Questo lavorio di affinamento non è il prodotto di un genio solitario, dunque, non di Cézanne si tratta, ma di un insieme di scoperte fatte da individui disparati che trovano infine la quadra. Eppure, riunire sotto la stessa voce – lo facciamo quando parliamo genericamente di innovazione – questi rimedi ci espone agli insulti: eccone n’antro che vede il sol dell’avvenire, n’antro che predica le magnifiche sorti e non si accorge del demone della tecnica, legata al diavolo del capitalismo. Ma non dobbiamo accettare simili accuse. A parte che fanno parte della nostra seconda natura, trovare il rimedio al dolore e tanto basterebbe. Ma qualsiasi passo in avanti non segna una strada diretta verso il sole dell’avvenire, ma al contrario ingarbuglia i nostri passi.

 

Torniamo all’esempio di cui sopra: abbiamo salvato i bambini, e questo è un bene, la Madonna si addolora di meno, ma al contempo, nel giro di 50 anni, la popolazione si è raddoppiata e puntiamo inesorabilmente ai 10 miliardi. Come dire, un sogno ha prodotto un incubo. Dieci miliardi di persone. La terra arabile quella è, a meno che non mettiamo a coltura i deserti, dobbiamo utilizzare la stessa quantità di terra e raddoppiare la produzione senza intaccare le risorse.  Non finisce qui. La crescita demografica certo non riguarda lo stanco occidente. Noi, infatti, abbiamo già dato. Sappiamo che c’è una forte correlazione – ci dicono e ripetono i demografi – tra benessere e indice di fertilità femminile. Più stai bene, più le vecchie strutture agricole con gli ancestrali retaggi culturali si disgregano (provocando la disperazione, i patemi e le arringhe di tanti poeti e intellettuali), meno hai bisogno di braccia e meno figli fai. In Italia, per esempio, siamo sotto la soglia di sostituzione. Dunque, i prossimi italiani saranno figli di immigrati – per fortuna della nostra etnia e grande giubilo per la genetica che si sa è fieramente bastarda, e per questo così vitale. Che dire, è un po’ come per le entrate e le uscite su un conto corrente. Noi italiani siamo in quella fase irreversibile che vede le uscite (i morti) molto più abbondanti delle entrate (i nuovi nati) e per quanti sforzi possiamo fare quel gap non lo si recupera.

 

Ma non è un problema solo italiano, ammesso che sia un problema. La tendenza è generalizzata, anche in India e Bangladesh, nazioni un tempo all’indice per le figliolanze così numerose, fanno sempre meno figli: 2,5 figli per donna. Quindi, tornando a quella correlazione demografia, il mondo fa meno figli perché sta migliorando, il benessere aumenta e infatti i figli diminuiscono – fatta la tara delle diseguaglianze (ma questa questione andrebbe affrontata per bene), degli ammassi di capitale in mano a pochi e gli ammanchi sotto la voce plusvalore che molti subiscono. Dati alla mano, sono le nazioni più povere a fare ancora molti figli. Capite bene che so vogliamo fermare la crescita intorno ai 10 miliardi e trovare dei rimedi che rendano il mondo un posto ancora abitabile, è necessario far uscire dalla povertà uno o forse due miliardi di persone. Che detto così, sembra uno slogan facile per prendersi gli applausi in un convegno, ma per questo movimento in avanti c’è bisogno di energia, agricoltura nuova e collaborazione, comprensione, analisi, altruismo, e tanta pace e meno egoismi stile talk-show.

 

Comunque la mettiamo, una delle ragioni che rendono la vita degna di essere vissuta è l’innovazione – qui intesa in senso lato – e la collaborazione tra persone per renderla efficace. Che dire, a 40 anni di distanza, all’elenco di Woody Allen aggiungerei perlomeno qualche scoperta che testimonia la nostra capacità di trovare rimedi e poi prenderci appena appena un applauso, che dopo tanto sbandare è appena giusto che fortuna e l’ingegno ci aiutino.

 

Comunque, per ricapitolare e precisare. Il rapporto sogno e incubo si vede: altro che magnifiche sorti. Soffriamo, sopportiamo, produciamo tragedie degne di nota, poi capiamo che c’è un dolore di scarto che va affrontato, troviamo rimedi efficaci per la sofferenza, moriamo di meno, diventiamo tanti e la moltitudine comincia a diventare pericolosa perché, guarda un po’, quella moltitudine che fino all’altro ieri era in un limbo, ora esiste e ha le nostre stesse (terribili) abitudini, tra cui viaggiare, sognare, consumare, godersi la vita e non solo zappare. Se ci fermiamo e ci chiudiamo, di certo non andremo lontano: qualcuno dirà che il passato era meglio, meglio quando i confini erano quelli di una volta e magari combatterà per sistemarli a dovere. Qualcun altro ci farà capire che siamo troppo malati e corrotti per fare qualcosa di buono, meglio abbandonare la barca subito. Altri malediranno l’umano e benediranno il post human.

 

Se in questo bailamme potessi dire la mia, suggerirei – a parte di abolire i talk, ma questa è utopia spicciola – per non perdersi in insulti, tipo sei un ottimista inguaribile, nonché uno stupido che attende il sol dell’avvenire, schiavo della tecnica e del capitale, del c’era una volta un giardino dell’Eden che abbiamo rovinato… ecco, per evitare tutto questo suggerirei di non considerare la storia del mondo come una linea retta. Al contrario, trattasi di un gran cespuglio. Alcuni rami hanno avuto un vantaggio, altri meno, ma tutti stanno imparando a cercare rimedi, e questi tuttavia vanno misurati, per capire il loro tasso di efficacia e di benessere indotto.

 

Dunque, poche chiacchiere: non è detto che il mondo debba andare così come è andato finora, a parte che può peggiorare, ma possiamo, e ci vuole poco, anche unire le forze e moltiplicare la nostra creatività. Basta che ci apriamo e non ci chiudiamo: è una questione culturale, di sguardo e attenzione, insomma cominciamo a inserire nell’elenco cose nuove e finora ignorate, affinché possiamo studiarle, ammirarle, incentivarle, migliorarle e integrarle, così come facciamo con i quadri di Cézanne e simili. Visto il guazzabuglio, aggiungerei a quell’elenco, così per rinvigorirlo ed essere concreto, una nuova tecnologia molto promettente e una maniera specifica di guardare il mondo. La nuova tecnologia si chiama Crispr/Cas9, del modo specifico di guardare il mondo meglio parlarne alla fine del saggetto.

 

Il Crispr/Cas9 è uno strumento nuovo, frutto di ricerche decennali (la messa a punto di tale metodo è valsa il Nobel per la Chimica 2020 a Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier). Ha molte funzioni e ci sono parecchie speranze su come e dove utilizzarlo, ma siccome arriveremo a dieci miliardi e avremo bisogno di utilizzare meno risorse, meno chimica per esempio, nonché costruire piante migliori, possiamo guardare solo a un modo di utilizzare questa tecnica: in agricoltura. A proposito, sappiamo che quando nei maledetti talk si parla di agricoltura vengono fuori due scenari. Il primo: il nostro pianeta è stato rovinato dall’agricoltura industriale, e allora aerei che diffondono agrofarmaci, fiumi inquinati e api che muoiono. Il secondo scenario, invece, mostra un’agricoltura diversa, in genere un contadino con le sue capre e il suo orto che ci dice: che bella vita che faccio, sana, naturale, rispettosa dei ritmi della natura, mica come voi – poi un semplice perito agrario fa il bilancio di quella azienda e si chiede: ma questo come fa a vivere?

 

 

Entrambi gli scenari sono semplificazioni grossolane, ma c’è in queste semplificazioni qualcosa di vero? Certo, l’agricoltura, soprattutto negli anni 70 e 80, ha promosso un uso troppo disinvolto degli agrofarmaci. Pur vero, però, che via via le quantità sono state ridotte. I tossicologi lo ripetono spesso: il consumo di agrofarmaci è in contrazione, grazie allo sviluppo di nuove tecniche e tecnologie, disciplinari di produzione, investimenti in ricerca. Le tonnellate dei formulati commerciali sono calate del 38,5 per cento. Mentre le sostanze attive impiegate, cioè quelle che di fatto combattono patogeni, malerbe e parassiti sono calate del 43,7. I soli insetticidi ridotti del 57 per cento, un’enormità. Ma non ci accontentiamo, puntiamo alla luna, appunto e inseriamo nell’elenco il Crispr/Cas9: possiamo affermare – per incentivare la curiosità – che grazie a questa tecnica potremmo abbassare ancora di più le dosi di agrofarmaci, e non solo, ma anche migliorare alcuni prodotti, dal punto di vista quantitativo e qualitativo.

 

Crispr/Cas9, dunque. Attenzione è un acronimo. A volte vengono rigettati dai cittadini, insomma se una cosa non è chiara dall’inizio, non vale la pena chiarirla strada facendo. Per affrontare questo acronimo appunto Crispr/Cas9, basta fornire pochi elementi. Eccoli: Dna, Rna messaggero e Ribosomi. Allora, il Dna cioè, acido desossiribonucleico è simile a una scala, di quelle che si comprano dai ferramenta. E’ composto da una struttura esterna (cioè, molecole di un particolare zucchero tenuto insieme da molecole di fosfato: zucchero, fosfato, zucchero, fosfato) e dai pioli, la parte più interessante del Dna. I pioli, infatti, sono composti da quattro coppie di basi che si uniscono, l’adenina sempre con la timina, la guanina sempre con la citosina. Queste associazioni formano un codice che possiamo leggere.

 

Poi, per capire come funziona (e arrivare al Crispr/Cas9) rubo una metafora ad Alessandro Tavecchio, bravo divulgatore. Il Dna è lo spartito musicale. Ma lo spartito non è musica, per tradurlo in musica, cioè il prodotto finale, le proteine, ci vogliono strumenti e musicisti. Il musicista, cioè quello che trasmette l’informazione scritta sullo spartito allo strumento è l’Rna messaggero. Lo strumento che trasforma, grazie al musicista, i segni in musica, è il ribosoma: è lì che avviene la sintesi proteica, il luogo dove l’informazione viene letta e trasformata in proteina. Studiando e sequenziando i genomi, a partire dagli anni 80, si è visto che il Dna di alcuni batteri presentava delle ripetizioni, cioè, a spaziature regolari, erano raggruppate delle sequenze di basi, brevi e palindromiche da qui Crispr (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats).

 

A che servono queste sequenze palindromiche raggruppate con regolarità? Dopo anni di ricerca, si è capito che quelle sequenze erano la memoria immunitaria dei batteri. I batteri sono organismi unicellulari, dunque (a differenza di noi umani) non hanno linfociti. E allora, se sono attaccati da alcuni virus (anche i batteri si ammalano), come lo riconoscono? Semplicemente portando dentro il proprio Dna pezzi di Dna virale, che appunto viene raggruppato in brevi sequenze di basi, sistemate in spaziature regolari.

 

E’ come se, perdonatemi l’esempio, io che sono di fede calcistica napoletana, avessi introiettato nel mio sistema di difesa contro la Juve, la frase Cr7 (immaginando che Ronaldo militi ancora nella Juve) che (nel mio genoma) si ripete a sequenze regolari. Così quando la Juve entra in campo, posso prima riconoscere la maglia numero 7 di Cristiano Ronaldo, poi eliminarlo e sperare così di far collassare l’intera squadra. Allo stesso modo, quando un virus attacca un batterio, il batterio stesso fa partire il suo sistema di difesa, appunto, un pezzo di Rna con la sequenza Crispr. Questo Rna Crispr legge il Dna del virus, se lo riconosce (se le basi sono le stesse, insomma se vede la maglia), grazie a una proteina, la Cas9, taglia e annulla, cioè degrada il genoma virale e annulla così il pericolo.

 

Questo meccanismo funziona anche in laboratorio, dunque si aprono delle opportunità per un editing genomico preciso e mirato: possiamo tagliare pezzi di genomi che non ci piacciono o sostituirli con altri. Come? Se conosciamo il genoma di una pianta, e sappiamo che quel gene ha una funzione specifica, possiamo costruire (o disegnare) un sistema Crispr/Cas9, grazie al quale modificare, con grandissima precisione, quel gene. Sempre per usare la scontata metafora calcistica, costruisco un sistema Crispr/Cas9 che riconosce i giocatori in campo, così posso eliminarli o sostituirli: taglio uno e/o inserisco un altro. Esempio. Le nostre amate viti. Se le modifichiamo con le tradizionali tecniche, se volessimo, che so, introdurre una resistenza a un patogeno incrociando le nostre varietà con altre, tipo le americane e le asiatiche, perderemmo la particolarità e la qualità della nostra varietà.

 

Questo è il motivo per cui sulla vite il miglioramento genetico è poco usato ed è anche il motivo per cui, per produrre un buon vino, non ci resta che usare fungicidi.  Sappiamo anche che nella sola Unione europea si usano circa 60 mila tonnellate di agrofarmaci, e più precisamene il 65 per cento di fungicidi. Possiamo ridurne l’uso? Sì, col Crispr/Cas9. Vediamo come. I funghi per entrare cercano la serratura adatta. La serratura è regolata da geni. Noi conosciamo quel gene, sappiamo cioè la sequenza di basi che lo compongono. Bene, con il sistema Crispr/Cas9, possiamo fare in modo che un Rna opportunamente preparato arrivi su quel gene (la serratura) e lo tagli. Così non c’è più la serratura e l’oidio (nel caso specifico) non riesce a entrare. I genetisti sono entusiasti, sperano di riuscire sia ad aumentare le resistenze delle piante, sia a modificare con precisione dei geni (magari quelli che possono fornire qualità alla pianta). Il Crispr non costa molto, è preciso e può essere utilizzano dalle pubbliche università per migliorare i nostri prodotti tipici.

 

Vogliamo cambiare l’agricoltura? La buona notizia è che si può fare. La cattiva notizia? Non parliamo abbastanza e con costanza e pazienza di queste tecniche, quindi, non essendo in elenco tra le cose che valga la pena vivere, al pari dei quadri di Cézanne, il cittadino non è informato intorno le potenzialità della nuova straordinaria cassetta degli attrezzi, e così pensa al passato e non lavora con i nuovi utilissimi (e poco costosi) strumenti. A questo punto, per potenziare l’elenco, aggiungerei quel modo di guardare il mondo. Ora che è mattina e le mie scorte di ottimismo sono al massimo conviene che scriva subito di che si tratta: nell’elenco va aggiunto un modus operandi, bisogna lottare contro la retorica dell’apocalisse: la vita è degna di essere vissuta se si rifiuta l’idea della fine del mondo, che porta con sé l'idea del si salvi chi può, dell’ognuno per sé, segna cioè un ritorno alla chiusura. In questo momento non ce lo possiamo permettere.

 

La retorica dell’apocalisse ci porta a pensare che ancora un passo e siamo nel baratro, non spinge il motore della ricerca, al contrario lo fa girare a vuoto. La retorica dell’apocalisse è un problema perché incastra le persone in un angolo, addossa loro responsabilità troppo pesanti e non tutte giuste da accollare ai singoli, così o il cittadino si mette buono buono nell’angolo e si ascolta la predica, paralizzato dai diti puntati, oppure appena può, si scrolla tutto di dosso e addio.

 

Lottare contro la retorica dell’apocalisse significa che sì, certo, alla fine del mondo ci possiamo pensare, con inquietudine ma senza toni isterici, con serietà e lungimiranza, e dobbiamo abituarci a maneggiare più soluzioni e più strumenti. La retorica dell’apocalisse invece ti paralizza: ti fa sentire o peccatore che invoca lo Spirito santo o al contrario uno che più puro non si può. E tuttavia la felicità non sta nella purezza (che per essere valida necessita dell’impurezza infernale), ma nella ricerca di una soluzione di compromesso che sappia fare i conti con le scorie che la vita produce.

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