Un romanzo russo racconta la malattia del potere di Putin

Paola Peduzzi

Il putinismo è nato nella violenza e  ritorna alla violenza perché solo nel terrore trova il modo di sopravvive. Conversazione con Giuliano da Empoli sul suo libro ispirato al putiniano Vladislav Surkov

Vadim Baranov è nell’ufficio di Vladimir Putin, è notte perché il capo del Cremlino è un animale notturno, e Putin chiede al suo consigliere: c’è qualcuno più popolare di me in Russia? Baranov, che è uno dei pochi uomini di Putin che riesce ad avere un rapporto dialettico con il capo, risponde: no, nessuno. Cita i numeri, dice che l’opposizione ha consensi ridicoli, ma Putin insiste: pensaci bene. Baranov balbetta altre considerazioni, ma la sua risposta è sempre la stessa: no. E Putin allora gli dice: Stalin. E bada bene, il più popolare è ancora Stalin non perché i russi si sono dimenticati col tempo e con il crollo dell’Urss i massacri di Stalin, ma, al contrario, perché se li ricordano, perché ricordando che Stalin sapeva punire i traditori. Se le ferrovie non funzionavano il capo delle ferrovie veniva fucilato; se mancavano le uova, il capo del programma agricolo finiva per confessare di aver fatto mettere lui dei chiodi sui camion che trasportavano le uova, di essere quindi un sabotatore, e veniva fucilato. I treni non ricominciavano a funzionare e le uova non si trovavano in ogni caso, ma il potere compiva il suo mandato, manteneva l’ordine, salvava se stesso.

 

Vadim Baranov è il protagonista di “Le mage du Kremlin”, il romanzo russo di Giuliano da Empoli che esce oggi in Francia edito da Gallimard. Baranov, il mago del Cremlino, è ispirato a Vladislav Surkov, uno dei consiglieri più stretti di Putin fin da quando non si sapeva nemmeno chi fosse Putin, uno degli architetti del putinismo, oggi – dicono le cronache, ma la conferma ufficiale non c’è – messo agli arresti come tanti altri esponenti del potere russo in quelle che sono state definite le “purghe putiniane”.  “Surkov, e di conseguenza Baranov, è un ingegnere del caos, forse il più ingegnere di tutti”, dice al Foglio Da Empoli riprendendo il titolo e l’idea del suo ultimo saggio, “Gli ingegneri del caos” (Marsilio), appunto: “Mi ero imbattuto in Surkov quando raccoglievo il materiale per ‘Gli ingegneri’, ma pur essendo anche lui un raffinato spin doctor del nazionalismo e della disinformazione, ho intravisto un personaggio più complesso e una storia ai limiti dell’incredibile, e mi è venuta voglia di farne un romanzo”. 

 

Surkov ha studiato all’Accademia di arte drammatica di Mosca, ha scritto saggi e romanzi, “vive il suo mestiere come una performance – dice Da Empoli – Non distorce la realtà: lui crea la realtà. Ha creato partiti finti, ha creato movimenti giovanili, ha messo al servizio del putinismo la sua anima cultural-artistica e in questo incarna la matrice originaria di uno spin doctor, uno che non lavora tanto sulla storia e sulla dottrina, quanto sulla materia umana, sulla mente, sulla coscienza delle persone”. L’Ucraina entra nel romanzo e nella vita reale di Surkov non come un elemento che completa la dottrina ideologica nazionalista ed espansionistica di Putin ma come uno choc da cui è necessario difendersi per tempo: è la rivoluzione arancione del 2004, la rivolta popolare che scardina il potere filorusso a Kyiv, l’evento che fa capire a Surkov e quindi a Putin che “il monopolio del potere non è sufficiente, è necessario, e in quel caso urgente, costruire il monopolio della sovversione – dice Da Empoli – E’ a quel punto che Surkov in Russia mette insieme i gruppi rock, i motociclisti, i tifosi, i giovani e li organizza per evitare che si realizzi il timore di Putin, che diceva: il prossimo sono io”. E’ così che nasce il movimento Nashi, nostro, nel 2005, “incarnazione perfetta del progetto di Surkov”, e anche il motivo per cui tra il 2011 e il 2012 il consigliere viene estromesso dalla corte di Putin, perché appare al capo troppo vicino a questi nuovi gruppi di potere contigui ma anche pronti a ribellarsi non tanto al sistema, ma a Putin stesso.  Tornerà, Surkov, nel 2013 quando ha inizio la prima campagna militare ucraina di Putin, anche se il presidente allora non voleva che apparisse così. 

 

Gli omini verdi della conquista parziale del Donbas e dell’annessione della Crimea sono “un’altra espressione esatta del pensiero di Surkov, la manipolazione delle menti, la propaganda al servizio di un esercito”, dice Da Empoli che  nel romanzo dà a Baranov incarichi che Surkov non ha avuto nella realtà, “come la direzione dei Giochi olimpici a Sochi e la guida della famigerata troll factory”, la conquista delle menti ancor prima che dei territori. Nel 2020, Surkov viene estromesso un’altra volta, la ragione non si sa, ci sono state molte speculazioni ma nessuna dichiarazione, “Baranov esce di scena perché comprende di essere alla fine di un arco di potere che è nato dalla violenza e che non può che tornare, e ci torna, alla violenza, forse ora in questa sua forma definitiva che stiamo vedendo in Ucraina. Baranov prende atto della natura brutale del regime e si ritira, come Surkov si è ritirato e non si sente più: non è un dissidente, anzi le rare volte che ha parlato ha detto cose molto violente, semplicemente è scomparso”. L’ultima performance del drammaturgo, insomma. Le ragioni hanno a che fare con il racconto che questo romanzo fa del potere, “il potere in senso ampio – dice Da Empoli – perché credo che la natura del potere, le pulsioni che agitano quelli che lo detengono e quelli che lo cercano sono le stesse dappertutto, quel che cambia sono soltanto i limiti, i vincoli esterni che sono imposti a tali pulsioni”. La declinazione russa è calzante perché “basta mettere piede a Mosca per sentire che è la città al mondo dove più si avverte in modo opprimente la presenza del potere. E Baranov lascia il Cremlino proprio perché riconosce il parossismo dell’anima del potere, irrimediabilmente violenta”.

 

Il potere è sopravvivere a tutto “e a volte per sopravvivere devi uccidere tutti”, dice Da Empoli, ed è forse questo che sta accadendo con le purghe putiniane. Surkov avrebbe dovuto fare quello che sapeva fare al meglio: creare la realtà, costruire in Ucraina il consenso filorusso necessario per portare a compimento il progetto militare di conquista, ma oggi quel consenso filorusso non c’è. “O magari c’era anche – dice Da Empoli – ma se poi la violenza arriva al suo estremo in funzione del potere ai suoi estremi distrugge tutti: se costruisci e disegni le menti filorusse e poi le bombardi e le uccidi, è ovvio che il progetto crolla. In questo si compie l’ispirazione staliniana di Putin. Il dialogo con Baranov sulla popolarità di Putin risale al 2003, poi ci sarebbe stata la lotta agli oligarchi, in quel momento i traditori da punire. Non c’è nulla nel putinismo odierno che non fosse già presente alle origini”, e questo conferma quanto siano state infondate e anzi pericolose le tante illusioni che ci siamo fatti, e ancora ci facciamo, sulle possibilità di dialogo o di persuasione nei confronti del presidente russo. “E’ la logica del terrore che sostanzia il metodo Putin”, mantenere alta la tensione per avere più leve su cui fare pressione, “sopravvive con il terrore, questo è il suo strumento di potere”, dice Da Empoli, e così si conclude anche il suo romanzo russo, con una sopravvivenza solitaria, pietrificata e spaventosa. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi