Il caso Ioannidis, l'epidemiologo contrarian, e il rischio di una scienza avviata al pensiero unico

Gilberto Corbellini

Gli attacchi contro l'epidemiologo non sono un bel segnale. Il suo nuovo studio sembra disegnato davvero male, ma le accuse vanno oltre il merito scientifico

“La teoria dei microbi ha secolarizzato le malattie infettive, ma ha causato come effetto collaterale la sacralizzazione dell’epidemiologia”. Lo scriveva nel 2009 sul New Yorker Jill Lepore, docente di American History a Harvard. La teoria microbica aveva sottratto le malattie infettive dalla sfera della superstizione, ma siccome si tratta fenomeni complessi e di natura darwiniana, invece di entrare, dato che è difficilissimo, nella logica biologica delle cause, è sorta una specializzazione della medicina sociale, cioè l’epidemiologia, che discetta di modelli e coltiva misteriosi culti matematici (R0) senza neppure cercare di calarli nella realtà. Sembra che pensino: se la realtà non funziona come il mio modello, peggio per la realtà.

  

Gli attacchi contro un intelligente epidemiologo, John Ioannidis che si sono scatenati negli Stati Uniti, perché non è allineato con il pensiero unico, non sono un bel segnale. Fanno temere che l’eccesso di visibilità o di ascolto di cui stanno godendo imprevedibilmente alcune figure che chiamiamo genericamente “scienziati”, possa alla fine far del male alla scienza.

 

Fin dall’inizio di questa pandemia Ioannidis si è detto scettico sia per quanto riguarda i numeri fatti circolare, sia per quanto riguarda le misure di lockdown adottate, a fronte del fatto che non esistono prove che siano efficaci. La sua tesi è che siamo di fronte a un’epidemia che è meno grave di quel che si pensa, e ci stiamo comportando come un elefante che per sfuggire a un innocuo topo si lancia in un burrone, sfracellandosi. Ioannidis non dice che si è sbagliato ad agire come si è agito, e in ordine sparso. Ma le scelte vanno costantemente controllate/aggiornate, usando dati credibili, cioè raccolti con un metodo scientifico, e non massaggiando i numeri che ci consegna un’acritica esperienza induttiva. E’ lo stesso ragionamento, grosso modo, degli epidemiologi svedesi.

  

Ioannidis è notissimo per aver scritto l’articolo scientifico forse più letto nella storia della biomedicina, che si intitola “Perché la maggior parte dei risultati prodotti dalla ricerca sono falsi”. La tesi era che la maggior parte degli studi condotti in ambito biomedico non sono replicabili. Non solo o non tanto a causa del fatto che molti esperimenti sono disegnati male – Ionannidis lo riconosce e stigmatizza la sciatteria e l’ansia di pubblicare dati – ma in quanto la variabilità causale intrinseca nei fenomeni studiati rende alcuni risultati falsi. Questo è un concetto un po’ sofisticato per una comunità scientifica che cerca di applicare modelli meccanicistici a fenomeni darwiniani. Quel che servirebbe è raccogliere dati attraverso disegni sperimentali che eliminino i fattori confondenti.

  

Nei mesi scorsi, Ioannidis e collaboratori hanno condotto uno studio in California reclutando 3.300 soggetti attraverso Facebook per misurare la siero-prevalenza e scoprendo che le persone entrate in contatto con il virus sarebbero molte di più di quelle accertate, per cui le stime di mortalità/letalità andrebbero ricalibrate. I dati sono stati pubblicati in una versione preliminare e non analizzata da revisori indipendenti. Apriti cielo. Un gran numero di colleghi lo ha criticato dicendo che si tratta di un pessimo studio, ispirato da un bias di conferma, e altri lo hanno attaccato sul piano politico in quanto ha accettato di discutere le sue tesi e i suoi dati su Fox News, dove si fa propaganda conservatrice contro il lockdown.

  

Lo studio sembra disegnato davvero male. Ma le accuse vanno oltre il merito scientifico. Ioannidis ha risposto che le critiche ai dati, anche a quelli che stanno ulteriormente emergendo, sono ben accetti, ma non i processi alle streghe. “Spero che gli scienziati saranno in grado di concentrarsi con calma sulla scienza e sul gioco di cercare un colpevole o nello scontro di programmi politici. Non ho alcun programma politico e la caratterizzazione meno plausibile sarebbe che sono ‘conservatore’, dato il mio curriculum. Il mio obiettivo principale rimane quello di cercare di imparare ciò che non conosco e diminuire la mia ignoranza”.

  

C’è dell’ironia in quello che sta accadendo. Rimanendo in Italia, fino a pochi mesi fa la scienza era negletta e insultata, mentre oggi dovrebbe istantaneamente o miracolosamente risolvere una sfida che richiede lunghe ricerche anche solo per capire come affrontarla. Gli scienziati, da parte loro, sembrano cecare di rispondere a quel politico che chiedeva loro “certezze”. E’ triste assistere alle esibizioni di narcisismo o di paternalismo di scienziati e medici che si accodano dietro a qualche pensiero/pregiudizio unico a cui rimangono fermi malgrado prove del contrario, o che cambiano in base a convenienze comunicative. Come dire, sembra che il virus non stia portando alla luce solo le fragilità della biologia e della pretesa razionalità umana. Ma anche la precarietà della scienza, a causa del fatto che gli scienziati sembrano aver perduto quell’etica della responsabilità che Weber riconosceva nella statura morale delle élite intellettuali del suo tempo.

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